Equilibri globali in bilico: l’establishment USA tuona contro Trump e l’amicizia con la Russia

(di Giampiero Venturi)
17/05/17

Mai nessun presidente degli Stati Uniti a soli quattro mesi dal suo insediamento, aveva dovuto affrontare tanti nemici sul fronte interno. Trump-outsider, a destra e a sinistra, a qualcuno proprio non va proprio giù.

I media, compresi quelli italiani, dedicano titoloni a presunte rivelazioni dello stesso Presidente al ministro russo Lavrov e al tentativo di insabbiare l’ormai famoso Russiagate, attraverso pressioni sull’ex capo dell’FBI James Comey.

Innanzitutto i fatti. Sul siluramento di Comey è nato un vespaio infinito, basato su poche notizie, se possibile confuse.

L’operoso capo della polizia federale USA, saltò agli onori delle cronache quando in piena campagna elettorale, rese pubblico il mail-gate di Hillary Clinton. Fece retromarcia pochi giorni dopo (luglio 2017), dichiarando che la Clinton non sarebbe stata perseguita penalmente.

Il tira e molla durò fino a ottobre, quando i guru delle analisi politiche assegnarono all’FBI la colpa definitiva della sconfitta di Hillary. Che la stampa e le tv fossero schierati univocamente con la candidata Dem e che questo potesse vagamente orientare l’opinione pubblica, è un particolare che molti degli stessi guru ancora oggi continuano ad omettere.

Al di là dei percorsi legali che riguardano solo gli USA, a James Comey sembra sia stato dato un peso eccessivo. Quel che non si capisce bene infatti, è come faccia un dirigente di Stato ad essere alleato di Trump al punto da facilitarne l’elezione e al tempo stesso colui che potrebbe domani favorirne l’impeachment. Dando per scontato che James Comey non sia scemo o bipolare, una delle due verità sembra incontestabile:

  • l’email-gate di Hillary Clinton non era un lavoro su commissione ordinato da Trump;
  • il Russiagate è una montatura politica.

Non è esclusa la terza ipotesi: su entrambe le questioni le speculazioni politiche sono andate ben oltre i fatti reali.

Se a qualcuno piace la guerra fredda, a noi osservatori, per definizione, piace guardare. Ci spariamo allora un altro episodio della fiction “Gogna mediatica contro Trump”.

Nella puntata di oggi si parla di rivelazioni fatte dal Presidente a Lavrov, circa un prossimo attentato dello Stato Islamico contro un aereo di linea americano. Le informazioni sarebbero giunte da agenti del Mossad in Siria.

La prima domanda che sorge spontanea è:

“E allora?”

La scena secondo qui il Mossad fa il sorcio, Trump il pollo e il russo la volpe col colbacco, ricorda più una barzelletta che un caso diplomatico.

Il Washington Post però insiste e sostiene che le rivelazioni di Trump fossero riservate, come se Lavrov lavorasse in portineria e non avesse responsabilità importanti circa la collaborazione con gli USA sulla sicurezza globale.

Va ricordato che l’autorevole testata americana, ostaggio della fama del Watergate, è quella che indicò Trump come il Mussolini d’America e che contende al New York Times la palma del peggior nemico della Casa Bianca.

Il tam tam mediatico non conosce sosta e rimbalza anche in Italia, dove rende felice chi preferisce gli impeachment agli impicci domestici. La tv ABC, in vena di romanticismo, accusa addirittura il Presidente di mettere in pericolo la vita di un imprecisato agente israeliano. Sì… possiamo confermare che è proprio questo il problema di oggi in Medio Oriente!

Tra gli 007 della domenica, c’è perfino qualcuno nostalgico di Totò e Peppino divisi a Berlino che indica i motivi per cui non si deve parlare con i russi (il Post.it, 16 maggio):

“Perché i russi in Siria stanno combattendo su un altro fronte…”.

Delle due l’una:

  • o gli americani non stanno combattendo l’ISIS come fa la Russia;
  • o il giornalista si è sbagliato.

È bene chiarire che l’intesa informale fra USA e Russia riguardo la lotta al terrorismo islamico in Siria, prevede la collaborazione sulle informazioni riguardanti la reciproca sicurezza. A questo va aggiunto che Tel Aviv ha buoni rapporti con Mosca, nonostante il nodo Iran renda difficile una relazione cristallina, e che sicuramente è avviata a migliorare quelli con Washington, affossati dall’era Obama.

Dall’elezione di Trump a novembre, l’ISIS ha perso circa il 40% del territorio controllato in Siria ed è ad un passo dal tracollo in Iraq. C’è da pensare che la collaborazione con la Russia, per ora cresciuta sotto la cenere, non sia poi così negativa.

L’intermediazione di Mosca col mondo sciita in Iran, Siria e Iraq, sarà fondamentale per i futuri equilibri in Medio Oriente. Trump avrà già il difficile compito di non trascendere con Teheran. Complicarlo minando ogni tentativo di migliorare il dialogo fra America e Russia, sarebbe un errore madornale.

Non capirlo significa nel migliore dei casi essere poco lungimiranti, nel peggiore, avere interessi in malafede.

Per mettere altra benzina sul fuoco, insieme alla “spiata” fatta da Trump a Lavrov, è riemersa puntuale l’accusa di voler insabbiare il Russiagate. Questa volta è Repubblica (17 maggio), altra testata notoriamente trumpiana, a ripescare il New York Times e James Comey.

L’ex capo dell’FBI sarebbe stato costretto a nascondere prove di contatti fra lo staff presidenziale e il Cremlino e in particolare a recedere da indagini sul già silurato Michael Flynn, causa evidente di tutti i mali dalla Guerra di Secessione in poi.

Si tratta di palle infuocate tutte da verificare ma intanto lanciate all’opinione pubblica. Comey, considerato un venduto dagli ambienti liberal fino all’estate scorsa, oggi è dipinto come San Giorgio contro il drago.

Andrebbe ricordato che come sponsor del repubblicano MacCain nelle elezioni del 2012 e come nominato all’FBI da Obama nel 2013, è virtualmente l’esatta espressione di quello che in gergo si chiama Deep State: un rampante uomo d’apparato in forte contrasto con l’attuale Presidente e con una credibilità pari a quella di Schettino in termini nautici.

Il Congresso USA ovviamente non perde l’occasione per suonare la carica contro Trump. A dar fiato alle trombe ci pensano personaggi per niente schierati: la democratica Pelosi e i compagni di partito Schumer e Schiff! a loro si aggiunge il capo della Commissione Esteri del Senato, il repubblicano Bob Corker, a cui nessuno si è ancora preso la briga di riferire che l’Unione Sovietica si è sciolta nel 1991.

Lo spunto su cui riflettere non è tanto la consistenza politica di Trump, né il suo spessore morale. Su entrambe le questioni, i tempi non sono maturi.

Viene da domandarci se l’occasione di creare nuovi corridoi diplomatici possa essere anche quella per equilibri geopolitici globali più stabili.

Il dato che nella caccia alle streghe sembra emergere finora è uno: la sconfitta elettorale di Hillary Clinton non era prevista e molti assetti sono saltati.

La russofobia come panacea di ogni male, non sembra un’ottica dal grande profilo strategico. Col tempo si risolverà in un boomerang anche mediatico. Per quanto annichiliti dalla gran cassa del mainstream, lettori e appassionati di geopolitica non sono poi tutti completamente stupidi…