Filippine: occhi puntati su Duterte, lo sceriffo del Pacifico che non piace agli USA

(di Giampiero Venturi)
22/09/16

Non è usuale parlare delle Filippine in termini di geopolitica. Capitò ai tempi del discusso Marcos che tra un’azione antiguerriglia e l’altra, concedeva mezzi aerei e location ai capolavori del cinema di guerra: le gesta del colonnello Kilgore alle prese col napalm in Apocalypse Now, devono molto alla disponibilità controversa dell’ex uomo forte di Manila.

Anche in quel caso però le Filippine, dotate di una geofisica troppo simile al Vietnam per essere trascurate, rimanevano confinate in un ruolo di ripiego, obbligato da vicini con spalle troppo più grandi.

A volte però i riflettori tornano. E tornano in un momento storico in cui il Sudest asiatico si riempie di significati politici, così importanti da far credere sviluppi nemmeno troppo remoti.

Si parla molto in questi giorni di Rodrigo Duterte, presidentissimo della repubblica del Pacifico. Se ne parla a tutto tondo, spaziando dallo stile poco ortodosso ai diritti umani, dalle esecuzioni sommarie di narcos ai nuovi orientamenti di politica estera.

La stella di Duterte inizia a brillare col mandato di sindaco nella città di Davao, metropoli filippina di 1 milione e mezzo di anime, principale centro della critica isola di Mindanao. Da mix tra casino asiatico e narco-municipio messicano, Davao diventa una delle città più sicure non solo del Far East ma addirittura del continente. Pur non somigliando affatto a Legoland, la città filippina fa da trampolino a Duterte, che reinventa una gestione di potere assolutista, nazionalpopolare e non di rado violento. Sulla scorta della tolleranza zero di newyorkese memoria, il nuovo uomo forte filippino adatta l’esperienza metropolitana ad una dimensione nazionale e inizia a ragionare in termini di giustizia diretta: dichiara guerra al crimine e dota la polizia di poteri speciali. 

Dall’insediamento come presidente nel maggio 2016, nelle Filippine avviene un vero e proprio cataclisma. Con dichiarazioni oltre i limiti della provocazione, Duterte s’impone all’attenzione dei media dichiarando guerra senza quartiere al traffico di droga e alla corruzione. Attivisti dei diritti umani e comunità internazionale iniziano a convergere sul trono di un uomo che accentra in sé tratti contraddittori ma utili al rafforzamento di un carisma indiscutibile: intavola trattative con i guerriglieri comunisti dopo anni di lotta armata, reintroduce la pena di morte, si accanisce con ferocia contro i separatisti islamici di Mindanao di Abu Sayyaf. Pur gestendo il potere sulla base di legami familiari, si mostra come uomo di popolo, paladino di un’indipendenza e di una purezza politica e culturale molto seducente per l’orgoglioso popolo filippino.

E su questo perno ruota l’inversione di rotta ormai avviata da Manila su scala internazionale. 

Le Filippine sono da sempre una stampella importante per le strategie USA nel Pacifico. Le basi di Subic e Clark hanno fatto la storia militare del Paese fino a quando nel 1991 la presenza di truppe straniere fu considerata superflua e gli americani tornarono a casa.

Dal 2012, da quando cioè la Cina ha cominciato ad allungare le mani sul Mar Cinese Meridionale, le sirene d’allarme hanno cominciato a riecheggiare in tutto il Pacifico e la Settima Flotta ha ripreso a fare capolino con più frequenza.

La Marina filippina ha potuto contare per anni solo su vascelli riciclati dalla US Navy e della Royal Navy. Nonostante la fase di rilancio e potenziamento (trattative per 6 corvette classe Minerva e Pohang; progetti per acquisire sottomarini) la Hukbong Dagat non dispone ancora di mezzi sufficienti per competere a livello internazionale. Fatta eccezione per la nave anfibia Tarlac di 7000 tonnellate, i mezzi di punta sono ancora i pattugliatori ex-Hamilton, classificati come fregate.

Si è ricominciato quindi a parlare di nuova presenza stabile USA con ricollocamento di forze aeree a Clark e un interessamento speciale per l’isola di Palawan. Dopo l’Enhanced Defense Cooperation Agreement del 2014 sono state individuate ben 5 nuove basi in tutto il Paese.

Il rilancio dell’intesa fra USA e Filippine è nato su due pilastri:

  • arginare la crescente minaccia cinese;
  • combattere il terrorismo islamico sempre più forte nel sud dell’arcipelago.

Ma proprio su questi due punti pare che Duterte abbia deciso d’impuntarsi, creando un attrito con Washington imprevedibile solo fino a metà 2016. Le politiche nazionalpopolari hanno portato il presidente filippino a riaprire il dialogo con Pechino nonostante la diatriba sulle acque territoriali finita alla Corte dell’Aia. La Cina per Manila non sarà più un nemico? nel nome di un risveglio sovrano delle nazioni asiatiche può essere, sostiene Duterte.

Non solo: tra le dichiarazioni più eclatanti del presidente c’è anche l’accusa esplicita agli Stati Uniti di aver favorito l’estremismo islamico in Medio Oriente, con dirette conseguenze per tutto l’Estremo Oriente.

Duterte, dopo aver insultato pubblicamente Obama (ritrattando solo in parte), ha dichiarato che le truppe speciali USA presenti oggi a Cagayan de Oro (base di Lumbia) e Zamboanga devono lasciare il Paese, pena gravi conseguenze.

Convinto che l’alleanza con gli States sia più un peso che un'opportunità, il presidentissimo lascia intendere grossi cambiamenti nell’area.

Quanto brillerà ancora la stella di Duterte è impossibile saperlo. Di sicuro però, ne vedremo delle belle.

(foto: Hukbong Daga/web)