Si moltiplicano sui media di tutto il mondo le rivelazioni illuminatrici. Il golpe in Turchia sarebbe stata una grande messa in scena tesa a rafforzare il potere di Erdogan, mastro burattinaio.
Si sa. L’onniscienza da bar e la dietrologia da detective a tutto campo alimentano tesi secondo cui dietro ogni evento c’è sempre una seconda ragione. È il complottismo, la scienza che immagina non ci sia molto da fare nella vita oltre a creare seconde versioni.
Anche la Turchia rientra in questo fenomeno o c’è davvero del marcio?
Facciamo il punto.
Che ci siano falle, buchi o zone d’ombra su quanto successo il 15 luglio non c’è bisogno di dirlo. Parliamo di un colpo di Stato del resto e non di una sagra di paese. Quando i due elicotteri inviati per l’attacco a Marmaris sono arrivati sopra l’albergo di Erdogan, il presidente se n’era già andato da due ore. Qualcosa non torna.
Erdogan poteva contare sul pieno controllo del MIT, della Polizia e di una parte delle Forze Armate, questo è evidente. Ciò non toglie che il tentativo di putsch ci sia stato e che come ogni volta che un golpe fallisce qualcuno, da cattedre inventate, lo definisca maldestro, da operetta o una pagliacciata.
Vediamo meglio.
Come ogni Paese con basi istituzionali solide (la Turchia lo è) Forze Armate e Polizia rispondono a due valori diversi: le Forze Armate rappresentano lo Stato, la bandiera, la “corona”, la continuità ontologica di una nazione. Non a caso i Corazzieri a cui è assegnato il compito di difendere il Quirinale sono Carabinieri. Le forze di polizia, in quasi tutti i Paesi ormai demilitarizzate, sono legate viceversa al potere esecutivo, cioè ai governi. La Polizia di Stato non a caso è a guardia di Palazzo Chigi…
Quando c’è commistione tra i due settori, allora le leve del potere sono intrecciate in modo incompatibile con la democrazia. In Turchia lo scontro fra Polis e militari golpisti c’è stato sul serio e, al di là delle forzature e delle interpretazioni, ha dimostrato una netta dicotomia interna ai palazzi di Ankara: da un lato il nuovo sistema costruito da Erdogan che fa leva su masse giovani islamizzate nel nome di una rinascita turca; dall’altra una borghesia fusione di conservatori e liberal illuminati filoccidentali che contano sulle Forze Armate per tenere la Turchia dentro un binario di modernità.
Una parte dell’esercito, prodotta dal nuovo corso di Erdogan, evidentemente ha seguito il governo e il putsch è fallito. Credere che fosse tutto programmato al millesimo fin dalla prima ora è discutibile per due valide ragioni:
- le purghe di Erdogan di cui tanto si parla in queste ore, in realtà non sono una novità. La sostituzione sistematica di procuratori, governatori e alti ufficiali delle Forze Armate avviene senza soluzione di continuità dal 2011 senza che nessuno in Occidente abbia avuto da ridire. Stessa cosa per il bavaglio alla stampa.
- le prime reazioni ufficiali di USA ed Europa al golpe si sono avute all’alba, 5 ore dopo l’inizio degli scontri. Il fatto lascia presupporre che una strizzata d’occhio occidentale ai golpisti ci sia stata, senza però coinvolgimenti imbarazzanti. Come dire: “Noi non c’entriamo, ma se Erdogan cade, tanto meglio…”
Quella a cui stiamo assistendo è in realtà l’accelerazione di un proceso inquietante di cui parliamo su questa rubrica da più di un anno. La Turchia si sta “arabizzando” sia nell’organizzazione del potere sia nei suoi contenuti politici.
Sono quattro gli elementi che convergono in questo senso:
- la figura del leader carismatico, sul modello del rais arabo, che giustifica la sua investitura con una democrazia plebiscitaria
- il crescente controllo delle forze armate, tanto più necessario se il rais non è un militare
- lo sviluppo di una “gioventù” politicizzata che interpreta le velleità del partito del presidente
- lo strumento confessionale come collante sociale e antitodo alle “cospirazioni” dall’estero
Queste quattro presunzioni, connesse ad un adeguato uso di bilanciamenti di rappresentanze (minoranze linguistiche, etniche, religiose…) e ad un grado variabile di repressione, sono le fondamenta di un tipico regime arabo.
La Turchia, Paese in antitesi col mondo arabo, è stata esterna a tutto questo per decenni. Pur non essendo un esempio di democrazia rappresentativa (ma chi lo è davvero in Occidente?) ha prodotto per anni stabilità e alternanza politica. Ora le cose cambiano.
Da Ankara risuona più forte l’eco di litanie mediorentali. Niente di nuovo forse, ma con ogni certezza qualcosa di serio.
Va tenuto presente che la Turchia non è l’Egitto: è un membro fontamentale della NATO e almeno sulla carta, in rampa d’accesso all’Unione Europea.
USA ed Europa non possono permettersi di perdere Ankara. Pantomima o meno che sia stato il tentativo di golpe del 15 luglio, questa è l’unica cosa che conta e con ogni evidenza è quello che sta accadendo.
(foto: Türk Kara Kuvvetleri)