Alla frontiera di Zupci, venendo dal Montenegro, si capisce bene: da qualunque parte si entri, la Bosnia è sempre diversa ma in fondo sempre uguale. L’ossessione per il doppio alfabeto, cirillico per i serbi e latino per gli altri, ricorda divisioni antiche. La stanchezza e l’aria ferma fanno il resto. La Bosnia sembra un film al rallentatore. Pochi chilometri oltre Zupci i confini veri si sentono nell’aria: verso ovest, oltre le colline assolate e ispide, il cielo è croato; la strada verso l’interno per Trebinje invece è tutta serba. Su una landa pianeggiante rimangono indefiniti un contadino e una vacca magra, tra grilli e spighe bruciate.
In un fazzoletto di terra ci sono tutti i silenzi di una guerra vecchia, fatta male, raccontata peggio. La divisione in tre della Bosnia converge al centro di questa pianura. Icone ortodosse da una parte; bandiere croate dall’altra; rari minareti sparsi qua e là.
Il Sud della Bosnia spiega un sacco di cose. Dopo gli accordi di Dayton del ’95 la ricostruzione nella ex Jugoslavia ha riguardato qualcosa ma non tutto. Le infrastrutture che uniscono aree di etnia diversa ci sono solo a tratti. La stradaccia fra la serba Trebinje e la croata Ivanica è improvvisata. Le divide il silenzio e l’abbandono. Passarci col sole a picco aiuta a capire meglio il tormento atavico dei Balcani: troppe cose in uno spazio troppo piccolo. Troppe cose anche se non si vedono.
Proprio in quest’area passa un confine amministrativo a cui l’Occidente finge di dare valore: da una parte la Republika Srspka, dall’altra la Federazione Croato musulmana. Sono le due entità fittizie in cui si divide la Bosnia moderna. Come se croati e musulmani non si fossero massacrati. Come se la guerra fra l’HVO (l’esercito della Bosnia croata) e l’ARBiH (l’Esercito “regolare” bosniaco, per lo più islamico) fosse un’invenzione e il ponte di Mostar non fosse mai saltato.
Se le strade strette e sbrecciate intorno al torrente Trebišnjica potessero parlare, direbbero più cose di quante i documenti ufficiali raccontino. Ogni città di quest’angolo della cosiddetta Herceg Bosna è stata teatro di pulizia etnica: Capljina, Prozor, Livno, Stolac. Qui più di ogni altra area della ex Jugoslavia si è concentrato il tutti contro tutti innescato dalla dichiarazione d’indipendenza del ’92 voluta da Itzebegovic e dalla rottura fra musulmani e Croati del ‘93: prima serbi contro croati, poi croati e musulmani contro serbi, poi serbi e croati contro musulmani.
La retorica vuole che la colpa sia dei nazionalismi balcanici, esplosi negli anni ’80 ai primi segni di cedimento della Jugoslavia. Come se la convivenza armoniosa tra culture diverse non fosse dipesa esclusivamente dal bastone di Tito. Come se la Jugoslavia non fosse una toppa inventata alla fine della Grande Guerra per coprire i buchi di due Imperi spazzati via dalla Storia.
Dire “qui si viveva senza guerra fino alle pretese di inglobare i popoli in nazioni più grandi” è una forzatura storica indegna. Una dichiarazione che può servire al massimo a compiangere le vittime innocenti di violenze e massacri.
Il problema dei Balcani non sono la la Grande Croazia e la Grande Serbia. Sono i Balcani stessi. I nazionalismi sono stati una miccia su un fuoco che brucia da secoli.
Secondo la versione ufficiale la spartizione della Bosnia in tre pezzi distinti saltò per lo sparpagliamento a macchia di leopardo delle etnie che rendeva difficile l’assegnazione dei territori e per l’intransigenza delle parti, quella serba su tutte.
Probabile però che il fallimento dei piani Vance-Owen prima e Owen-Stoltenberg sia venuto anche da più lontano. Non è mai stato un mistero che una Republika Srpska e una Herceg Bosna autonome presto o tardi destinate ad unirsi rispettivamente a Serbia e Croazia, non erano le benvenute negli scenari graditi all’ONU e agli USA, unica potenza mondiale di quegli anni.
Troppo scomodi Milosevic e Tudjman e i loro aventi causa sul terreno, Karadzic e Boban. L’accordo di Karadjordjevo fra serbi e croati per la spartizione della Bosnia appariva un affronto al mondo dei più potenti. Secondo progetti più grandi, la migliore eredità possibile della Jugoslavia erano briciole innocue. Una Croazia e una Serbia forti collidevano con un mondo che si andava globalizzando secondo giostre e giostrai definiti. Nemmeno un Itzebegovic a capo di una repubblica musulmana ridotta con capitale Sarajevo poteva servire. Sarajevo era destinata a diventare simbolo di una grandissima pace di facciata e la Bosnia doveva rimanere sospesa come lo era stata per secoli: qualche giglio su una bandiera blu, una storia raccontata con le forbici, una finta convivenza multietnica e amen.
Le infiltrazioni jihadiste in Europa cominciarono proprio allora, nel ’93, quando l’amministrazione Clinton preferì armare islamici radicali piuttosto che cercare un’intesa reale con nazionalisti serbi e croati. Il prezzo l’Occidente lo avrebbe pagato qualche anno dopo.
La gente di qui dice che la guerra l’hanno fatta i contadini. Gente abituata a tagliare la gola al capretto e a squartare il maiale. È per questo che si è versato tanto sangue. Bisognerebbe chiederlo alla mucca magra e al contadino. Sono ancora lì, sullo sfondo di un vecchio trattore Zastava. Non sembrano testimoni dell’orrore. Non sembrano testimoni di nulla se non di se stessi. A vederli, una guerra odiosa tra vicini di casa sembrerebbe impossibile.
Eppure qui in Bosnia c’è stata, terza tra le quattro jugoslave. Ed è stata quella che più di ogni altra ha posto interrogativi sull’utilità degli organismi internazionali, non di rado lenti a muoversi ma rapidissimi a indicare i colpevoli.
Fumano camini di case rurali. La lamiera arrugginita di un cartello piegato rifrange la luce e il rumore del vento. Il sole stordisce tutto, anche i ricordi di una terra che ha visto troppo.
Dopo più di vent’anni però ognuno racconta le cose a suo modo. Anche il silenzio.
(continua)