L’annuncio del viaggio del prossimo giugno di Papa Francesco in Armenia e le notizie dal Nagorno Karabakh portano alla ribalta il Caucaso dopo molti mesi di silenzio.
Benché il programma della Santa Sede in termini diplomatici sia bilanciato dalla tappa prevista per settembre in Azerbaijan, è indiscutibile che la visita armena sia una scelta forte, da leggere non solo come parte di uno spirito di misericordia interconfessionale, ma anche come una riflessione a sé sulle atroci persecuzioni subite dai cristiani.
Alla luce della guerra strisciante fra Erevan e Baku, il viaggio nel Caucaso sposta le lancette della polemica in particolare verso la Turchia, ormai da tempi sotto i riflettori della politica internazionale.
Il protagonismo politico di Ankara nel quadrante eurasiatico è un dato di tutta evidenza: impantanata in Siria, coinvolta in Libia, attrice di un rinnovato scontro strategico con la Russia, chiave di volta dei flussi migratori verso l’Europa… la Turchia è indiscutibilmente al centro dell’agenda geopolitica globale.
Molto abbiamo discusso su questa rubrica delle traslazioni turche verso l’Islam radicale della Turchia, con buona pace della laicità, fulcro della nazione voluta da Ataturk. Molto si discute anche delle derive autoritarie di Erdogan, tanto preoccupanti in sede di diritto quanto facili da dimenticare nei programmi NATO e sulla strada dell’avvicinamento all’Unione Europea.
Per capire la cilindrata del motore con cui si muove la Turchia, in realtà bisogna attraversarla. È per definizione un Paese monolitico e più uguale a se stesso di quanto già la forma rigida non suggerisca. Il suo stesso assetto di Stato centralizzato e piramidale offre un’immagine di elefante grosso e lento ma proprio per questo obbligato ad essere stabile. Alla faccia delle tendenze secondo cui i federalismi sono automatica fonte di libertà, la Turchia si presenta come blocco unico fisicamente ancorato all’Egeo e all’Asia, ma ideologicamente immobile sui suoi principi fondanti.
Pochi Paesi al mondo sono legati al concetto d’identità come la Turchia. Ma se l’identità di un popolo è tanto più chiara quanto sono più forti i valori intorno a cui si riconosce, non è da escludere che perfino una negazione possa essere un valore.
Basterebbe citare il vocabolario turco, secondo cui i Curdi sono “Turchi delle montagne” o camminare per i vicoli di Kyrenia a Cipro Nord, dove il rifiuto del Sud greco è un assioma irremovibile che dura da 40 anni; nulla tuttavia ci aiuta a capire il significato ontologico del “sentirsi turchi”, più della Questione Armena.
Rimossa dalla coscienza collettiva turca senza troppi fronzoli è rimasta sepolta anche nella soffitta del perbenismo universale, al punto da essere fino a ieri praticamente ignorata da tutti.
Poco più grande della Sicilia, l’Armenia fece parlare di sé con le parole di Papa Francesco in occasione del centenario del genocidio del 1915, perfezionamento di una mattanza iniziata venti anni prima. Nonostante più di 1 milione di morti per fame, stenti ed esecuzioni sommarie, il mondo ha continuato a girare la testa per un secolo. L’evento si commemora ogni 24 aprile ma lo sanno solo gli armeni. Tra qualche giorno i giornali ne parleranno ancora, giusto il tempo di calendarizzare la velina dietro altre impellenze.
Non entriamo nella cronaca storica. Benché l’idea sia ancora attuale, l’Impero Ottomano e l’obiettivo di un’Anatolia etnicamente pura sono concetti per ora collaterali. Quel che conta è che uno dei piloni dell’identità turca, al punto da cementificarla e da resistere alla pressione del mondo intero, sia la negazione più assoluta dei fatti.
Di per sé la cosa è curiosa, soprattutto in tempi in cui ammissioni di colpe, outing ideologici ed excusatio non petita sono all’ordine del giorno.
Per la Questione Curda sotto un profilo accademico ci sarebbe al limite l’attenuante della molteplicità delle colpe (il problema è condiviso con Iran, Siria e Iraq) ma continuare a menare il can per l’aia sulla massacro degli armeni oggi sembra più che altro goffo. Soprattutto per un Paese che interseca parabole geopolitiche importanti e che siede nei salotti del jet set internazionale con un ruolo tutt’altro che secondario. Ancora di più se pensiamo che implicazioni strategiche concrete connesse ad una revisione di questo angolo di Storia, probabilmente non ce ne sarebbero.
È un fatto puramente identitario che scavalca il comune sentire e i principi elementari dell’interazione fra popoli. Ciò che viene concesso alla Turchia sotto una visuale storico-politica lascia intendere che anche per i genocidi esista la serie A e la serie B e che la mattanza armena, sacrificata sull’altare di equilibri strategici più grossi, sia obbligata a rimanere nella serie cadetta.
L’Armenia, primo Paese al mondo ad introdurre il Cristianesimo di Stato e che si arroga il merito di averlo sempre difeso, è un luogo meraviglioso, porta d’Oriente che trasuda Storia. Una Storia che gronda sangue e che non lascia spazio ad altre interpretazioni. Conosciuto o meno, il suo dramma è una cicatrice reale che per interessi ed egoismi continua ad indurirsi tra le ingiustizie dell’umanità.
I turchi, gran popolo, potrebbero fare molto in questo senso, almeno fin quando Europa e America non smetteranno di guardare altrove.
Se l’irritazione dell’alleato turco è stato finora uno spauracchio più pericoloso del vilipendio di un piccolo popolo caucasico, non è detto però che le cose non cambino. Il 24 aprile passerà con ogni certezza senza clamore: il ritorno di un Pontefice 15 anni dopo l'omaggio di Papa Giovanni Paolo II, sicuramente no.
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