Il “muro di Trump” in realtà fu costruito da Clinton: tutte le bugie sulla barriera tra USA e Messico

(di Giampiero Venturi)
30/01/17

Il vertice fra il Presidente degli Stati Uniti Trump e quello messicano Peña Nieto si farà. Le connessioni fra i due Paesi sono troppo strette e i temi sul tavolo sono troppo importanti per lasciare spazio a questioni di principio.

Come era lecito immaginare, gli attriti nati intorno al muro fra USA e Messico hanno scatenato i pregiudizi della stampa internazionale, alterando la misura dell’informazione. In realtà solo una tappa del complesso nodo di relazioni fra i due Paesi che vede spesso come punti focali la questione immigrazione e i traffici illeciti transfrontalieri.

L’intenzione di Washington di “costruire” il muro al confine col Messico ha generato reazioni indignate in giro per il mondo, ma è bene chiarire alcuni aspetti.

Innanzitutto va detto che il muro esiste già e fu costruito durante l’amministrazione Clinton. Il cosiddetto “muro di Tijuana” è una lastra d’acciaio lunga quasi 30 km che divide USA e Messico tra San Diego e Tijuana nel punto più trafficato di tutta la frontiera. Ad esso si aggiungono le barriere fisse e mobili sparse lungo ben 1000 dei 3000 km di frontiera esistente fra i due Paesi, messe su sempre ai tempi di Bill Clinton. Prima di allarmarsi per i nuovi decreti firmati da Trump sarebbe bene quindi fare una riflessione: per gli americani la frontiera sud è un affare molto serio da decenni; in tempi recenti è diventato solo prioritario.

A conferma di ciò, nel 2005, in piena era Bush, fu approvato dal Congresso l’ampliamento della barriera già esistente con ulteriore autorizzazione votata nel 2006. La maggioranza fu schiacciante in entrambi i casi, con l’appoggio trasversale di molti esponenti democratici (fra cui vanno menzionati Hillary Clinton e l’allora senatore dell’Illinois Barack Obama). Ovviamente la stampa internazionale, già schierata per quattro anni di fuoco incrociato su Trump, sorvola.

In altri termini, nonostante i dubbi sull’effettiva efficacia, la costruzione di un muro al confine fra USA e Messico e più in generale il potenziamento delle infrastrutture e del personale di sorveglianza alle frontiere, è un progetto antico, condiviso dalla maggioranza dei cittadini americani, soprattutto quelli che vivono nei quattro Stati frontalieri: California, Arizona, New Mexico e Texas. Anche se l’elettorato repubblicano è più incline alla linea dura rispetto a quello democratico, non esistono poli ideologici radicati in questo senso, perché il tema è vissuto come una vera e propria emergenza nazionale. 

I numeri parlano chiaro: ogni anno sono circa mezzo milione i messicani che entrano illegalmente negli States. A questi si sommano le decine di migliaia di altri latinos che usano il Messico come base per fare il grande salto. Ad oggi, la linea che divide il Messico dagli USA rimane di gran lunga la frontiera più “attraversata” del pianeta.

A proteggere i confini americani ci pensano teoricamente i 50.000 doganieri federali del CBP, il Costum Border Protection. Nonostante più di un terzo degli effettivi sia dislocato proprio intorno ai 42 valichi esistenti col Messico, la situazione è ormai fuori controllo: tranne i punti di passaggio più rappresentativi come Tijuana-San Diego in California e Ciudad Juarez-El Paso in Texas, la maggior parte della frontiera è un autentico colabrodo. 

L’insufficienza delle infrastrutture finora è stata tamponata in qualche modo dagli americani col cinico aiuto della natura: le aree desertiche immediatamente al di sopra del confine hanno spesso fatto da dissuasivo o peggio ancora da selettore all’immigrazione clandestina. Sono centinaia i clandestini che muoiono ogni anno anche dopo essere riusciti a “scavalcare il muro”.

Gli immigrati illegali negli USA oggi sono circa 12 milioni, di cui la metà messicani. L’atteggiamento da assumere nei loro confronti è stato al centro del dibattito elettorale delle recenti presidenziali e indubbiamente uno dei cavalli di battaglia di Donald Trump.

Oggi negli USA si pagano decenni di politiche incerte e di rimpalli fra autorità locali e federali, che hanno finito per incancrenire il problema. La doppia misura usata dall’amministrazione Obama che da una parte parlava di sanatorie, dall’altra continuava le espulsioni per arginare il tracollo dei consensi, ha dato il colpo di grazia. Basta un dato per farsi un’idea: nel 2013 (con Obama presidente) sono stati 400.000 gli arresti compiuti dalle autorità americane relativi a reati di immigrazione clandestina. Quasi uno al minuto!

Uno dei punti di dibattito più accesi è la differenza fra ingresso illegale e status di illegalità. Se il primo è un reato federale, l’essere beccati senza le carte in regola, teoricamente non costituirebbe un’infrazione gravissima.

Dietro queste sfumature di diritto, il problema del lavoro e dell’insicurezza è intanto cresciuto in maggior misura proprio nelle aree a forte immigrazione degli States, alimentando malcontento sociale.

Il fenomeno immigrazione è un tema delicato in Occidente, spesso trattato con demagogia e luoghi comuni all’insegna del politicamente corretto.

Potrebbe tornare utile ad esempio, smetterla di considerare il Messico come la patria di soli campesinos e braceros inermi che cercano di attingere all’eldorado schiavista nordamericano.

Il Messico di oggi, in termini di criminalità organizzata legata al traffico di droga, equivale a quello che negli anni ’80 è stata la Colombia. Solo nel 2011 sono state 13000 le vittime legate allo smercio di droga. La più volte citata Ciudad Juarez ha raggiunto il triste primato di città con più alto tasso di omicidi al mondo, arrivando al record assoluto di 9 uccisioni al giorno. Un effettivo problema di sicurezza e legalità c’è, difficile negarlo.

I cartelli della droga messicani non hanno scavalcato la Colombia solo nella distribuzione, ma hanno cominciato a primeggiare anche nella produzione, soprattutto da quando il mercato è stato invaso dalle droghe sintetiche (la nota serie tv Breaking Bad è centrata sull’argomento, molto sentito negli Stati del sud ovest). Il traffico di armi e di esseri umani generati come indotto dalla guerra della droga, rende l’area di confine un’autentica polveriera. Pensare di cavarsela con le solite intuizioni buoniste, lascia il tempo che trova.

Anche sulla questione delle relazioni bilaterali, sono circolate molte false notizie. Nonostante il disappunto del Presidente messicano per i toni usati da Trump, i rapporti fra USA e Messico sono ottimi e soprattutto necessari. Uniti dal NAFTA (North American Free Trade Agreement) i due Paesi sono partner commerciali reciprocamente irrinunciabili: gli USA sono la prima destinazione dell’export messicano (291 miliardi di $ annui, dati OEC); il Messico invece è la seconda destinazione per i prodotti americani (194 miliardi di $ annui, dati OEC).

Il Presidente messicano Peña Nieto è consapevole di questo e sa anche che alzare la voce non conviene a nessuno, soprattutto a lui. Come esponente del Partito Rivoluzionario Istituzionale, al potere in Messico ininterrottamente dal 1929 al 2000 e poi di nuovo dal 2012, è al centro di feroci polemiche per corruzione e scarsa efficacia alla lotta contro i cartelli della droga.

Dire che il Messico di oggi sia un narcostato, è probabilmente un’esagerazione; sostenere che sia un Paese politicamente, socialmente ed economicamente fallito è viceversa molto plausibile.

I problemi di oggi sono l’eredità accumulata in decenni di approssimazione che ha rimandato ai posteri ogni soluzione. Senza strappi o figure politiche disposte a metterci la faccia, difficilmente si troverà un equilibrio accettabile da tutti.

In fondo, gli attriti transfrontalieri tra Messico e Stati Uniti sono la sintesi delle sperequazioni fra mondo ricco e Paesi in via di sviluppo che riguardano il pianeta intero. Certamente non è una barriera fisica a risolvere il problema. Lo è ancora meno il moralismo terzomondista e mondialista che piega la realtà a giudizi preconfezionati.

 (foto: U.S.CBP)