La crescita del peso geopolitico saudita nell’ultimo decennio è indiscutibile. Più volte su questa rubrica abbiamo parlato del nuovo ruolo che Riad è riuscita a ritagliarsi nel tempo, fino a diventare un punto di riferimento ben oltre l’area del Medio Oriente per Paesi in cerca di patrocinio e denaro. Soprattutto denaro.
Il carisma dell’Arabia Saudita, in virtù del peso preponderante rappresentato in seno all’OPEC e alla Lega Araba, è un dato scontato. La crescita del ruolo di Riad sul piano internazionale ha però negli ultimi anni assunto una veste diversa, soprattutto in relazione alla “questione islamica”. Se per decenni siamo stati abituati a considerare il petrolio e gli investimenti nelle piazze finanziarie e immobiliari dell’Occidente come spia dello strapotere saudita, col tempo è venuta alla luce la relazione tra gli Al Saud e l’espansione del sunnismo islamista, soprattutto nella sua interpretazione più conservatrice.
Il filo rosso (anzi, verde…) della supervisione di Riad al ritorno del sunnismo combattente, parte dall’Afghanistan degli anni ’80 e proseguendo in Pakistan durante l’apologia dei talebani, si muove in giro per il mondo attraverso una galassia di gruppi di cui conosciamo i nomi più celebrati (Al Qaeda, ISIS, Boko Haram…) spesso solo apparentemente in contraddizione tra loro.
Mettere in relazione diretta Riad col terrorismo alle volte non è facile e soprattutto non conviene. Rimane però evidente il coinvolgimento dell’Arabia in tutti gli scenari di guerra che hanno dilaniato Medio Oriente e non solo negli ultimi 15 anni.
Il fatto non è causale ma si fonde alla citata crescita geopolitica della monarchia saudita su scala internazionale. In sostanza, le discutibili mosse di Riad in politica estera, rispondono ad un disegno strategico chiaro, che però con ogni evidenza sta fallendo su tutta la linea.
Il problema principale dell’Arabia Saudita si chiama Iran. Per arginare la culla dello sciismo, considerato diabolico dai sunniti wahhabiti, Riad è rimasta per anni fedele alleata degli USA, finendo per stringere addirittura la mano (senza essere vista) a Israele. Per l’Arabia è una questione di sopravvivenza, non da ultimo legata allo strapotere demografico della bolla persiana.
Lo spauracchio sciita è una costante nella storia degli sceicchi. La paura è diventata però ossessione quando l’Iran è uscito dall’isolamento internazionale, finendo per tornare utile alla causa occidentale. Il primo passo dello sdoganamento è avvenuto con Iraqi Freedom nel 2003, quando Teheran, pur tenendosi in disparte, ha plaudito alla fine del sunnita Saddam, suo nemico di sempre. La caduta del raìs di Baghdad, sostenuto dalle monarchie del Golfo durante la guerra Iran-Iraq ma odiato dopo l’invasione del Kuwait del ’90, ha finito per aprire scenari drammatici proprio per Riad: in Iraq, unico Stato arabo a maggioranza sciita, si è concretizzata realmente la possibilità di una supremazia dei seguaci di Alì, con grande allarme di tutti i piccoli regni sunniti dell’area cresciuti sul petrolio.
La cosa era e rimane ancora oggi inaccettabile per l’Arabia Saudita. Sotto questa prospettiva si capisce la nascita dell’ISIS e il finanziamento dei ribelli islamisti in Siria contro lo sciita Assad. Si spiega anche l’intervento armato nel Bahrein per reprimere le proteste contro la monarchia locale e soprattutto la sanguinosa invasione dello Yemen a supporto del presidente sunnita Hadi.
Due in particolare sono stati i grandi obiettivi di Riad dell’ultima decade: impedire che l’Iraq si unisse sotto una guida sciita; dividere la Siria creando un’area sunnita tra la costa mediterranea e la Mesopotamia.
In questo senso la scelta USA di eliminare Saddam ha creato un enorme problema ai sauditi, costringendoli ad inventare un disegno che dividesse il tanto demonizzato asse sciita tra Damasco e la Persia. Le politiche della Clinton e di Obama hanno appoggiato questo progetto di riassetto di tutta la regione, con ogni probabilità proprio per rimediare ad uno scenario frutto di un errore strategico, in realtà creato da Bush: far tornare protagonista l’Iran, non a caso coinvolto direttamente in Siria e in Iraq al fianco degli sciiti.
L’andamento imprevisto della guerra in Siria ha però cambiato le carte in tavola, costringendo l’Arabia Saudita a reazioni isteriche. Due esempi su tutti:
- lo scorso maggio Riad ha imposto alla Lega Araba l’inserimento di Hezbollah nella lista dei gruppi terroristi, con grande scandalo degli arabi più antiisraeliani;
- pochi giorni fa il ministro degli esteri saudita Al Jubayr, dalla Giordania ha tuonato contro la crescente influenza delle milizie sciite PMU (Unità di Mobilitazione Popolare), presenti sul fronte di Mosul in Iraq.
Non a caso dietro a Hezbollah e alle milizie sciite irachene c’è proprio l’Iran, main sponsor anche degli houthi nello Yemen.
È abbastanza ragionevole quindi sostenere che allo stato delle cose d'inizio 2017, Riad non abbia molte ragioni per sorridere. La sconfitta della Clinton, con cui ha flirtato durante tutta l’amministrazione Obama, ha interrotto il flusso di garanzie ai propri indirizzi politici. Il ribaltamento della guerra in Siria e la situazione in Iraq, dove una forte influenza iraniana sembra ormai scontata per il prossimo futuro, fanno il resto.
Nei prossimi mesi c’è da aspettarsi delle contromosse su scala internazionale di Riad, intenzionata a rimanere alla guida del cartello sunnita globale e a mantenere il ruolo di potenza geopolitica che si è costruita nel tempo. Per il momento l’unica reazione è il mantenimento in vita dello Stato Islamico e delle sue propaggini, non a caso e contro ogni pronostico, ancora in relativa salute.
(foto: القوات البرية الملكية السعودية / web)