Grandi manovre in Medio Oriente sulla scia di un rimescolamento di equilibri ormai in atto da alcuni anni. La parte del leone la fa in queste ore Israele, tornato in vetrina dopo un lustro dedicato all’ascolto vigile e pressoché silenzioso.
Il primo dato con cui Tel Aviv si deve misurare è la crescita geopolitica e lo sdoganamento dell’Iran, ormai protagonista assoluto in tutti i quadranti critici della regione. La vera scossa a Israele è arrivata nel 2015: da una parte gli accordi sul nucleare di Vienna; dall’altra la prospettiva che il fronte sciita in Siria non sarebbe crollato, grazie all’appoggio di Russia e Iran.
Secondo un approccio pragmatico, endemico nella filosofia di autodifesa dello Stato ebraico, Tel Aviv ha cominciato a guardarsi intorno, riscrivendo sulla lavagna l’intero elenco dei buoni e dei cattivi, così da aprire o chiudere le porte a seconda dei casi.
È bene però tenere a mente un aspetto che in Medio Oriente riecheggia come una litania: arabi, ebrei e persiani non si amano.
Su questa verità incidono delle note di eccezione che rendono l’eterna partita mediorientale estremamente complessa.
Il primo dato è che gli arabi non sono tutti uguali, ma in quanto prevalentemente islamici sono tagliati dalla diagonale sunnismo-sciismo. Non solo: se le differenze confessionali hanno alimentato le divisioni per secoli, ancor più hanno fatto le diverse visioni ideologiche del Secondo dopoguerra. La generica contrapposizione fra nasseriani-socialisti-nazionalisti e petrol-monarchie filoccidentali si è sovrapposta alle questioni religiose, creando ancora più confusione.
Israele ha campato di rendita su queste lacerazioni, tenendo a bada gli estremismi antigiudaici che di volta in volta si sono presentati, in virtù di una innegabile superiorità militare e tecnologica.
Il secondo dato è che iraniani e arabi, seppur connotati da una diffidenza ancestrale, convergono su un punto strategico: gli israeliani occupano la Palestina e Gerusalemme non potrà mai essere solo giudea. La convergenza è stata a tratti così forte che il paladino più pervicace della causa palestinese da fine anni ’70 in poi, è diventato proprio l’Iran. Nell’immaginario collettivo israeliano, non a caso Hezbollah contende ad Hamas la palma di nemico pubblico numero uno.
Israele dal canto suo cerca di inserirsi negli spiragli che si aprono di volta in volta, secondo la regola “il nemico del mio nemico è mio amico”. La polarizzazione tra Iran e Arabia Saudita ha offerto così l’occasione per un cambio di rotta agli storici equilibri regionali: Tel Aviv e Riad non si considerano più nemici “senza se e senza ma”. Le dichiarazioni a questo proposito dei rispettivi ministri degli esteri Lieberman e Al Jubeir rilasciate a febbraio alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco rasentano il corteggiamento reciproco.
In realtà i legami sordidi fra Israele e Arabia Saudita sono cosa antica e trovano una sponda nei contatti segreti esistenti fra Stato ebraico e Paesi islamici sunniti anche esterni al mondo arabo. Basta citare come esempio l’esercitazione Red Flag dell’agosto 2016, dove insieme all’ISAF, si sono cimentate in addestramento congiunto le aeronautiche nientemeno che degli Emirati Arabi e del Pakistan.
Tra tutti i 22 Paesi della Lega Araba, solo Egitto e Giordania hanno relazioni diplomatiche ufficiali con Israele. In via ufficiosa però, i contatti, soprattutto a livelli di intelligence, continuano da anni, soprattutto con Arabia Saudita e Qatar. le relazioni si sono intensificate da quando i rispettivi obiettivi strategici hanno iniziato a sovrapporsi.
L’isolamento dell’Iran è il primo traguardo in ordine di importanza condiviso dai due Paesi. Per Israele e Arabia Saudita le trame antigiudaiche e antisunnite degli ayatollah sono una vera e propria questione di sopravvivenza.
Un altro fattore determinante è la necessità di sostituire l’Egitto nel ruolo di rispettivo partner privilegiato. Al Sisi non è Mubarak, né tantomeno Sadat e il ruolo giocato dal Cairo in Siria, nello Yemen e in Libia risulta quantomeno ambiguo sia per Tel Aviv che per Riad. La riapertura delle ambasciate tra Iran ed Egitto, è l’ulteriore tassello di un quadro di diffidenza sempre crescente.
Come madrina di tutti i sunniti, l’Arabia Saudita si candida inoltre a supervisore dei rapporti arabo-israeliani e per esteso delle relazioni tra islamici ed ebrei, trovando un salotto sempre disponibile sia a Washington che a Londra. In altre parole, quello che fino a dieci anni fa sembrava un’autentica eresia, oggi può uscire allo scoperto: israeliani e sauditi se la intendono e non hanno più bisogno di nasconderlo.
Per l’Iran il monito è evidente e lo spauracchio agitato per decenni dalla propaganda interna diventa realtà. Se infatti Israele e Arabia Saudita fanno di necessità virtù, Teheran capisce l’antifona paventando il suo più grande male possibile: gli arabi e gli ebrei diventano alleati. Sembra fantapolitica, ma in Medio Oriente, tranne forse la pace, tutto è possibile.
La strada per una decodifica ufficiale dei rapporti fra Riad (e i suoi dignitari del Golfo) e Tel Aviv è ancora lunga s’intende, ma la diplomazia si basa spesso su fatti concreti. Molte delle mosse israeliane sono legate alla presa di posizione che ciascun Paese assume riguardo agli insediamenti ebraici nei Territori. Parafrasando, le simpatie di Israele oscillano in base a come ci si pone sulla questione palestinese e in particolare su ogni risoluzione delle Nazioni Unite che denunci nuovi insediamenti. In considerazione della guerra siriana ad esempio, non è difficile intendere l’idillio fra Riad e Tel Aviv. Sono lontani i tempi della guerra civile libanese in cui i siriani entravano in conflitto con l’OLP di Arafat. Oggi sono migliaia i palestinesi che hanno deciso di affiancare Hezbollah nella comune causa pro Assad. Su questa scorta, le forti pressioni saudite affinché Israele accetti un piano di pace duraturo (con riconsegna del Golan e di una fetta del Cisgiordania, n.d.a.), sembrano più orientate a togliere all’Iran il ruolo di difensore della Palestina (e dell’Islam) che a sponsorizzare la causa dei fratelli arabi più sgangherati.
A questo si aggiungono i contatti segreti informali tra israeliani e sauditi segnalati dalla stampa araba, le voci della prossima apertura di una sede diplomatica saudita a Tel Aviv, i voli aerei diretti introdotti tra Arabia e Israele e la sempre meno oscura collaborazione militare mediata dagli USA. Il colloquio e la stretta di mano tra il ministro della difesa israeliano Moshe Ya’alon e il principe saudita Faisal al Saud alla Conferenza di Monaco di febbraio sono in questo senso emblematici.
Israele, orfano anche dell’asse privilegiato con la Turchia di Erdogan, ha bisogno di un nemico in meno e di un mezzo alleato in più. I sauditi non aspettano altro. L’Iran lo sa e per bocca del presidente Rouhani ha iniziato ad accusare gli arabi di aver abbracciato la causa sionista. La palla ora passa a Teheran.
(foto: IDF/web)