Più che un grande settlement ebraico Kyriat Arba è una sorta di seconda città. Un grandissimo residence che affianca il centro urbano. L’eccezione di Hebron rispetto ad altre città della Cisgiordania è che ebrei e arabi vivono male, ma comunque gomito a gomito. Non solo nei più importanti Tel Rumeida e Avraham Avinu; anche negli insediamenti più piccoli e in quelli interni alla città la tensione è costante. Beit Romano, Beit Hadassa, Beit Chason, Beit Schneerson, Givat HaAvot, Beit Kastel, ognuno con la sua storia, ognuno con le sue contese.
A Beit Romano ha sede un presidio dell'IDF nonostante le leggi internazionali vietino espressamente la coesistenza d’installazioni militari ed abitazioni civili. Intorno a questo si discute da mesi, da anni. Dalla fine della Guerra dei Sei Giorni, quando i coloni ebrei ricominciarono a prendere possesso delle case a Hebron, la tensione è endemica. Sale e scende come la febbre, ma non va mai via.
È un destino santo e infame quello di Hebron.
Attigua alla strada del vecchio suq e nei pressi di quello nuovo, di fianco alla piazza Bab-Al-Zawye, sorge la scuola rabbinica Yeshivat Shavei. Difesa da filo spinato e torri è protetta da uomini armati dentro e fuori. Il rabbino Bleicher viene accostato al titolo shlita, acronimo di “possa vivere a lungo, amen”. È un augurio che si fanno tutti in città, ma l’Intifada dei coltelli e gli attentati quotidiani generano un diffuso senso d’insicurezza. Semmai dovesse servire, ci sono i soldati israeliani armati che girano ovunque a ricordarlo.
Tra una pattuglia dell’IDF e il muezzin, tra un adolescente arabo con la maglia del Real Madrid e un succo di frutta, la Cisgiordania è questa.
Si litiga su tutto. Di “Territori Occupati” gli ebrei non vogliono sentir parlare. Questa è Israele da sempre. L’”invasione sionista” viceversa è il ritornello infinito degli arabi. Il confine tra antisionismo e antisemitismo dipende dalle interpretazioni. Le convinzioni sono ataviche su tutto, del resto. A Hebron è inutile discutere se lo stesso monte a Gerusalemme sia il luogo del Tempio di Salomone o la pietra da dove ascese al cielo Maometto. Le propagande spingono per un’idea o per un’altra. Molti concetti deformati vengono poi rimbalzati in Occidente, dove il conflitto arabo-israeliano serve cause politiche secondo convenienza e secondo pregiudizi.
Per capire Hebron e la guerra che si porta dentro non è sufficiente nemmeno farsi spiegare. Ognuno racconta il suo Medio Oriente, ognuno ha la sua ragione. Sembra che l’unico equilibrio possibile sia il “non equilibrio”.
Due osservatori della TIPH scattano foto. È personale civile con status diplomatico che viene da Italia, Norvegia, Svezia, Svizzera, Turchia e Danimarca. Il loro quartier generale è un ex hotel sul lato arabo a poche centinaia di metri dalla superstrada che porta verso nord.
Disprezzati dagli israeliani perché testimoni scomodi, rivelano spesso che a Hebron di “ortodosso” ci sono solo i coloni: le procedure dell’IDF non lo sono affatto…
Ma col tempo sono finiti nel mirino anche degli arabi che ne lamentano la scarsa utilità. La ridda di polemiche continua: intransigenza e vittimismo, in un cerchio difficile da spezzare. Intanto c’è chi soffia sul fuoco. Dalle moschee il grido all’insorgenza è continuo. Centinaia di giovani arabi ogni giorno girano a vuoto tra i richiami alla ribellione e la disoccupazione cronica. Sulla sponda ebraica invece continuano ad arrivare i fondi. Non è l’amministrazione Obama, ormai alla resa dei conti col Likud e le destre israeliane. I soldi arrivano da conti privati dell’America profonda, quella che sostiene da sempre la causa ebraica e che incita i “settlers” di Hebron a procedere sempre e comunque. Tel Aviv, Knesset, Netanyahu… poco importa. Lo stesso IDF diventa nemico dei coloni spesso fuori da ogni controllo.
Osservatori segnalano offerte economiche sproporzionate sovvenzionate dal Nord America e continue provocazioni da parte degli ebrei per convincere gli arabi ad andarsene. Gli ebrei contestano. Il ritornello secondo cui gli arabi sono scacciati, per loro è una bugia maliziosa.
Dal check point 56 intanto partono gas lacrimogeni. Il posto di controllo ha il colore del ferro chiaro e taglia in due la strada, obbligando gli arabi che vivono oltre a controlli continui. Partono pietre. Tornano lacrimogeni e colpi in aria. Se c’è una regola a Hebron è che il diritto a camminare per la strada può saltare da un momento all’altro.
Cosa succederà domani è una domanda senza senso.
La “resistenza” di oggi non è una vera intifada. La Prima e la Seconda sono passate alle cronache per essere rivolte di piazza. Il Pakmaz (il Comando regionale dell’IDF responsabile della Cisgiordania) ha dovuto affrontare in passato movimenti di massa prendendo le misure. Ora è diverso.
Se gli attentati senza strategia siano in realtà una vera strategia è presto per dirlo. Altrettanto difficile distinguere la violenza genetica di questa terra, dall’estremismo islamico nuova frontiera per rancori senza fine. Isis o non Isis, in dieci anni è cambiato il Medio Oriente e nuovi venti soffiano cupi anche sulla Terra al di qua del Giordano.
Hebron resta però una realtà circondata. Tra muezzin e coloni che chiamano Giudea e Samaria quello che altri chiamano Palestina scorre ancora il sangue col colore del melograno. Forse allora non è cambiato niente.
Israele e Palestina visti da Hebron. Cap. 1: l’intifada dei coltelli
(foto: autore/IDF)