Aleppo, nel torpore mediatico generale, è stata liberata. L’uso del termine “liberata” viene omesso da quasi tutti i mezzi d’informazione, allo scopo di presentare la vittoria delle forze regolari siriane come una sconfitta per la democrazia e per i parametri del politicamente corretto generalmente riconosciuti.
A questo proposito si sta diffondendo a macchia una grande menzogna mediatica che lega il caos umanitario e le sofferenze della popolazione civile alle ultime evoluzioni sul campo. A prescindere da come si consideri il governo di Assad, è bene precisare un dato oggettivo: la sconfitta dei ribelli jihadisti ad Aleppo è di fatto la fine di un incubo per i civili residenti, usati per anni come scudi umani delle milizie. Con la fine della guerra nell’area urbana, Aleppo può iniziare a immaginare un futuro, cioè esattamente il contrario di quanto i media occidentali stanno dicendo in queste ore.
A questo proposito, fonti locali indipendenti confermano l’inizio dell’evacuazione di migliaia di persone dai distretti appena liberati di Aleppo est per ricevere assistenza in aree più attrezzate anche fuori dai confini siriani (Teheran e Mosca per i casi più gravi). Da giorni è già in atto la bonifica di ordigni inesplosi e campi minati, mentre si parla di ripristino delle prime necessarie infrastrutture, azzerate da quattro anni di devastazioni.
Dal punto di vista militare la vittoria ad Aleppo era annunciata da mesi. Senza dubbio permetterà a Damasco di reimpiegare in altri fronti almeno 20.000 effettivi finora dislocati nell’area urbana. Lo stesso è avvenuto nelle zone nordorientali della Grande Damasco, nella conurbazione di Ghouta nella regione adiacente al Golan, dove gli accordi di resa raggiunti con le milizie ribelli hanno permesso di recuperare intere sacche fuori controllo liberando migliaia di soldati pronti per essere inviati altrove.
Il governo di Damasco, a corto di reclute dopo sei anni di guerra, ha deciso di accettare il sistema della resa dei miliziani in cambio del loro trasferimento in altre regioni, per “raggruppare” i fronti e consolidare le aree del Paese sotto il proprio controllo. Sta succedendo in queste ore ad Aleppo, dove centinaia di jihadisti si consegnano per essere filtrati a nord verso il confine turco.
Dal punto di vista politico le novità che giungono da Aleppo sono però ancora più importanti. La disfatta dei ribelli rappresenta una perdita di potere negoziale del fronte anti Assad, già duramente colpito dalla sconfitta di Hillary Clinton alle presidenziali USA. Dopo aver perso il principale sponsor internazionale, l’opposizione al governo di Damasco non può più contare nemmeno sui risultati dal campo, al giorno d’oggi limitati alla regione compresa tra Latakia e Aleppo, limitrofa al confine turco.
Se il nuovo Presidente Trump confermasse con i fatti l’intesa con Mosca per la gestione della crisi siriana, è presumibile quindi che entro metà 2017 la Siria si presenti con questo scenario:
- Assad rimarrà in sella, controllando la maggior parte del Paese, comprese tutte le maggiori città. La ricostruzione inizierà per ripristinare un minimo di normalità nelle aree ormai bonificate dalla guerra inizierà da subito sotto monopolio russo;
- gli USA, in cambio dell’abbandono dei cosiddetti “ribelli moderati”, difenderanno davanti a Damasco e Mosca gli interessi turchi, essenziali per ripristinare un buon rapporto strategico tra Washington e Ankara. In sostanza si tratterà di permettere alla Turchia di rimanere in territorio siriano per garantire un cuscinetto di sicurezza che la metta al riparo da ondate di profughi e soprattutto da incursioni curde. Le milizie turcomanne con ogni probabilità non saranno smantellate. Dipenderà invece dal peso di Washington e dagli accordi bilaterali tra Ankara e Mosca il futuro dei gruppi armati jihadisti come Jaish al-Islam, Jabhat al-Nusra, Ahrar al-Sham, in sostanza tutto il cartello legato ad Al Qaeda che ha operato finora sotto l’ombrello turco. In questa partita gioca un ruolo cruciale l’Iran, chiaramente interessato a difendere gli interessi sciiti in Siria e feroce oppositore di tutti i gruppi fondamentalisti sunniti attivi contro Damasco. I rapporti futuri tra Trump e Teheran decideranno la partita.
- I curdi siriani avranno una certa autonomia ma assolutamente non paragonabile a quella di cui godono i cugini iracheni. Come già espresso in questa rubrica, l’autodeterminazione curda non interessa a nessuno: alla Siria per questioni di integrità territoriale; ad Ankara per paura di link col PKK; all’Iran, coinvolto da una riattivazione della lotta armata indipendentista curda. Seppur con un potenziale limitato, il Partito della Libertà del Kurdistan (PJAK) e il Partito Democratico del Kurdistan iraniano (PDKI), rispettivamente appoggiati dai curdi turchi e iracheni, hanno ripreso a sparare nel 2016.
Quanto detto sopra sintetizza l’importanza per Damasco (e Mosca) di stringere i tempi nella lotta contro l’opposizione interna siriana rappresentata dai “ribelli moderati” e spiega alcune scelte militari, in apparenza discutibili.
Se da una parte è vero che la riconquista dell’ISIS di Palmira rimane una pessima figura per siriani e russi, è anche vero che lo Stato Islamico non è una priorità per nessuno. Soprattutto per Assad, che ha tutti gli interessi a presentarsi più forte internamente ma in difficoltà col Califfato, riconosciuto come il male assoluto da tutti sul piano internazionale.
In altri termini: una vittoria militare ad Aleppo, sul piano politico vale dieci sconfitte a Palmira…
(foto: Al Jazeera)