Il 17 dicembre in Marocco si è raggiunto un accordo formale tra Tripoli e Tobruk, i due cartelli che si spartiscono le aree d’influenza di un Paese senza più istituzioni stabili ormai dal 2011. La Libia di oggi, lungi dall’essere stabilizzata e pacificata, è rappresentata da due poli geografici per ironia della sorte sovrapponibili alle due anime storiche del Paese, la Cirenaica e la Tripolitania, ma che nel bel mezzo di un tutto contro tutti, sovraintendono al loro interno a interessi di matrice molto diversa.
Ciò che i governi occidentali e le Nazioni Unite attraverso UNSMIL sembrano abbiano fretta di mostrare è un accordo di facciata che dia in pasto alle opinioni pubbliche e ai media un panorama quanto più istituzionale possibile del Paese nordafricano. Si dà molta enfasi alla composizione dell’esecutivo che sulla base di un governo di 32 ministri dovrebbe transitare la Libia dalla guerra civile ad una situazione di normalità.
L’accordo è previsto entro il 29 gennaio (la ratifica spetterebbe al Parlamento di Tobruk) e passa attraverso una spartizione dei dicasteri che tenga conto dei pesi politici di tutte le componenti.
I vice del primo ministro Al Sarray sarebbero presumibilmente cinque. La difesa andrebbe a Tobruk col generale Haftar (malcelata conoscenza della CIA) in un ruolo chiave, mentre gli Interni andrebbero al fronte di Tripoli.
Attualmente quello che viene definito il governo legittimo di Tobruk, vanta una vittoria alle elezioni del 2014 sulla base di un’affluenza del 10% degli aventi diritto. Il fronte islamico di Tripoli, controllato dai Fratelli Musulmani libici, a sua volta risulta tutto meno che compatto. Le “milizie di Misurata” e il cartello islamico Fajr hanno molta voce in capitolo sul “fronte ovest” e rendono la base di ogni accordo con Tobruk assolutamente instabile.
Perché tanta fretta di dare buone notizie?
Le ultime voci su un progresso delle milizie ISIS in Libia sono veline fuori controllo. L’effettiva espansione nel Paese del presunto Califfato non è tangibile, anche perché il reclutamento di nuovi miliziani non avviene su una base confessionale e ideologica, ma su quella della disperazione. La stessa cosa era avvenuta a Derna, roccaforte degli islamisti sunniti waabhiti combattuti dal compianto Gheddafi. Finita la rivolta contro il colonnello e iniziata la guerra civile, molti giovani libici sono stati attirati dalle frange estremiste solo perché mancavano punti di riferimento istituzionali. Il legame tra popolazione libica e milizie (ISIS compresa) è assolutamente strumentale da entrambe le parti. Questo anche in virtù di una tradizione storicamente laica della media borghesia libica.
In altri termini al di là dei proclami ONU, non sembra ci siano urgenze particolari in Libia, perché lo stallo è totale. Brillano solo un regime di completa anarchia e la sempre più conclamata certezza che l’eliminazione di Gheddafi sia stato forse il più grande errore geopolitico degli ultimi 50 anni nell’area del Mediterraneo.
Quale che siano le evoluzioni nei prossimi giorni, è facile prevedere che il controllo reale del territorio libico da parte di un qualunque governo rimarrebbe comunque una chimera.
Ciò che conta davvero oggi sembra sia dare un cappello istituzionale all’unico aspetto centrale della questione libica: il controllo delle multinazionali sulle risorse esercitato attraverso la National Oil Corporation. Le milizie a questo predisposte non a caso continuano a fare il loro lavoro indisturbate.
Che l’ISIS si arrocchi a Sirte, che si faccia il governo d’unità nazionale o che ci sia un fantomatico accordo per un intervento militare della NATO o dell’ONU, per il momento, sono aspetti paradossalmente secondari.
(foto: al-Ǧaysh al-lībī)