Nel Sudamerica senza più stellette, tramonta il Chavismo

(di Giampiero Venturi)
07/12/15

Poco più di 30 anni fa c’era ancora la junta a Buenos Aires; 10 anni fa moriva Pinochet, capo delle forze armate cilene appena 8 anni prima. Nel Brasile a cui Paolo Rossi faceva la tripletta nell’82, comandavano i militari. In quel periodo c’era ancora Meza in Bolivia, l’ultimo generale-presidente. Vale lo stesso per l’Uruguay, dove fino al 1984 comandavano i colonelli. Il generale Stroessner in Paraguay avrebbe resistito addirittura fino al 1989.

Non c'è che dire: il vento del ’68 in Sudamerica è arrivato in ritardo. Un lieve ritardo di 40 anni con cui generali e colonnelli, quando non sono finiti in tribunale, sono andati in soffitta.

A conti fatti, l’unica eccezione è il Venezuela. La repubblica bolivarista di Chavez è rimasta per un po' l’ultimo esempio di presidenzialismo in divisa, benché dismessa. In divisa da parà precisamente, quella del 422° Batallón Briceño della 42° Brigada de Infanteria Paracaidista.

Vale la pena chiarire.

Ci si è molto adoperati per identificare la diversità di Chavez rispetto ai regimi “con gli stivali” del Sudamerica anni ’70 e ‘80. Chavez era amato dalle piazze rosse qui in Occidente. Col suo antagonismo, la sua retorica guevariana, le sue alleanze scomode, chiamarlo dittatore era diventato uno sforzo per molti illuminati.

In realtà il bolivarismo, forma autoreferenziata di un vago concetto di socialismo, è sempre stato ideologicamente trasversale. Con buona pace di chi voleva farne un mito esclusivo, la forte connotazione cattolica della società venezuelana, lo obbligava a un distacco netto dalle forme di socialismo reale ateo e marxista a cui ci si è abituati in Europa e nel mondo.

La forte presenza dello Stato nell’Economia rendevano anzi il potere militare di Caracas più vicino alla defunta Argentina di Videla, di quanto l’Argentina stessa fosse al Cile di Pinochet, liberista e anglofilo da sempre. In altri termini, gli autoritarismi latini si sovrapponevano e si distanziavano ben oltre il colore ufficiale delle bandiere.

Ricordarlo oggi però serve a poco. Quel che conta del chavismo è che fosse amato da metà popolazione e odiato dall’altra, fenomeno tipico dei dualismi sociali sudamericani, vecchi di duecento anni.

Il sistema di Chavez nel bene e nel male è stato un’eccezione. Pur inserito nell’alone di un populismo terzomondista, con tratti etnici spesso provocatori, non era immune da quel militarismo autoritario e golpista tanto odiato dai presidenti progressisti sudamericani degli ultimi 20 anni. Pur nemico degli “imperialismi colonialisti” non era mai entrato nella scia “sessantottina” radicatasi tanto in fretta in Sudamerica. Per molti aspetti era il contrario esatto di Lula o della Roussef in Brasile; di Correa in Ecuador, di Morales in Bolivia, di José Mujica in Uruguay. La stessa ala progressista del peronismo inseguito dalla discutibile Kirchner in Argentina lo riguardava fino a un certo punto.

Ora che in Venezuela è caduto l’inutile e dannoso Maduro, la musica cambia e il Venezuela torna tra i Paesi “normali”. Per ironia della sorte, proprio ora che il vento in Sudamerica è cambiato ancora.

Quanto sia bene e quanto un male è difficile dirlo in un continente strategicamente destinato a restare periferia. Nemmeno la fine del finto peronismo argentino e la vittoria di Macri potrà essere granché di aiuto.

Non più autoritaria, non più officina di ideologie… Se il Sudamerica senza stellette sarà democrazia vera o un’appendice dei mercati globali lo scopriremo solo vivendo.

(foto: Ejército Bolivariano)