Olanda e Turchia ai ferri corti: sullo sfondo, la fine dell’Unione Europea

(di Giampiero Venturi)
14/03/17

I toni di questi giorni non si usavano da decenni. Olanda e Turchia mettono in atto rispettive restrizioni diplomatiche e passano alle minacce dirette.

Dopo il mancato permesso di atterraggio degli olandesi al ministro turco Cavusoglu impegnato nel tour elettorale con gli emigrati turchi, la situazione è precipitata: proteste violente in Turchia, scontri in piazza, interventi della polizia, minacce da Ankara e linea dura olandese. Non sembra vero, ma è 2017.

Cosa c’è dietro?

Da una parte le elezioni legislative in Olanda, previste per il 15 marzo. La destra nazionalista di Wilders è data in grande crescita, al punto da contendere il primato nel Paese al VDD, il Partito per la libertà e la democrazia del Primo Ministro Rutte. Nonostante i sondaggi dell’ultim’ora parlino di rimonta moderata (lo stesso stratagemma dei media mainstream usato per contrastare gli euroscettici di Brexit e gli elettori di Trump), una fetta consistente della popolazione “arancione” ha ormai rotto il ghiaccio dell’imbarazzo politico e va a consolidare senza remore lo zoccolo duro del PVV di Wilders.

Non è un fenomeno di protesta. Da diversi anni in Olanda, come nel resto d’Europa, serpeggia un malcontento palpabile contro Bruxelles e le politiche antisovranità ad essa legate. Prima di Wilders fu il carismatico Pim Fortuyn a catalizzare quelle che sarebbero state chiamate più avanti “spinte populiste”. La morte del regista Theo Van Gogh nel 2004 ucciso da un estremista islamico dopo l’uscita del film Submission, fece il resto.

Rutte, premier portavoce delle istanze europeiste olandesi e scudo del mainstream politico, ha le spalle al muro. Ignorare le provocazioni turche e grattare altri punti nei sondaggi a favore della destra nazionalista o cavalcare onde in disuso presso i salotti del bon ton politico?

La risposta è nella domanda. Il permissivismo a oltranza di cui l’Olanda è regina per antonomasia ha un costo elettorale altissimo per i partiti istituzionali. Chi volesse sopravvivere all’”ondata nazionalista” che scuote l’Europa deve per forza di cose cambiare cavalli di battaglia. Continuare ad ignorare l’espansione islamica e le minacce islamiste non paga più e perfino i partiti progressisti sono costretti ad aggiustare il tiro.

Rutte sa benissimo che se abbassasse i toni con Ankara, particolarmente aggressiva in queste ore, il 15 marzo verrebbe spazzato via. 

Dall’altra c’è Erdogan. Su queste pagine, nello scetticismo generale, due anni fa ponemmo per la prima volta il problema dell’islamizzazione della Turchia. Più volte abbiamo anche sostenuto che l’abbandono della linea laica di Ataturk sia in realtà strumentale all’attuale cerchia di Erdogan, più interessato a consolidare il proprio potere dentro e fuori il Paese che a recitare i versi del Corano.

Ad aprile in Turchia si terrà il referendum con cui si potrebbe approvare la riforma varata il 21 gennaio dal Parlamento turco, che prevede l'ampliamento dei poteri presidenziali. Secondo la riforma Erdogan avrebbe maggiori potere nella gestione dello stato di emergenza (tra l’altro mai revocato dallo scorso tentativo di golpe di luglio) e avrebbe più garanzie in caso di impeachment. Battere sul tamburo dei “razzisti europei” è una carta molto remunerativa per il presidente turco perché scuote un elettorato a lungo plasmato intorno ad un atavico vittimismo storico, mai sopito del tutto nella coscienza collettiva ottomana.

A cosa porterà tutto questo?

Olanda e Turchia non si faranno del male, ma mettono a nudo un quadro generale su cui non si può nicchiare.

I Paesi fanno parte entrambi della NATO, il che è un’ulteriore segnale dell’effettiva tenuta interna dell’Alleanza e di quanto siano cambiati i rapporti fra Occidente e Turchia.

Sorprende ancor di più il dinamismo politico dell’Aja che da molti anni non assumeva una posizione in politica estera senza una condivisione preventiva della linea con i partner europei e con gli alleati atlantici. Il dato è sintomatico dello stato dell’arte a Bruxelles, dove la capacità di assumere un ruolo politico e quella di farci coesione intorno sembrano molto lontani dagli standard necessari a tutelare gli interessi diretti dei singoli Stati nazionali.

Indicative anche le posizioni espresse dai Paesi limitrofi e dalle istituzioni centrali dell’UE. Nel silenzio generale la Danimarca appoggia la posizione ferma degli olandesi, seguita dalla Le Pen che prende le distanze dalla linea morbida di Hollande. Da Bruxelles, desiderosa di farsi vedere ancora viva in vista di appuntamenti elettorali cruciali, arriva la difesa d’ufficio dell’Olanda.

Sotto il ricatto delle emigrazioni di massa, il cui rubinetto è in mano a Erdogan, l’Europa si scopre ancora una volta fragile. L’alzata di scudi della Turchia mette in vetrina soprattutto la totale assenza di un progetto geopolitico continentale che tenga conto delle effettive istanze dei popoli.

Rutte sta cercando di mettere la pezza della disperazione, ma il problema è strutturale. Non è inseguendo i voti dell’ultim’ora che tornerà la luce. Con ogni probabilità i giornali del 16 marzo titoleranno “il populismo in Olanda avanza ma non sfonda”, allineandosi alla pletora di suonatori del Titanic che ignorano una verità ineluttabile: l’Europa sta affondando in fretta. 

Leggi anche:

Golpe in turchia: vediamoci chiaro

Usa e Turchia: fine di un amore?

Turchia: fallito il golpe, ora Erdogan ha mano libera

(foto: web)