Non si può servire a Dio e a Mammona. Il Dipartimento di Stato sembra averlo capito e per bocca del portavoce Mark Toner, dichiara pubblicamente quello che tutti sanno da mesi: la Turchia, entrata in Siria con la motivazione ufficiale di combattere l’ISIS, in realtà continua a colpire postazioni curde allargando l’intervento militare anche all’Iraq.
Le esternazioni di Toner fanno riferimento ad “una viva preoccupazione” degli Stati Uniti circa la mancanza totale di coordinamento tra Ankara e la coalizione anti ISIS a guida USA per ciò che riguarda le operazioni militari a cavallo di Siria e Iraq.
L’allarme segue le ultime notizie che giungono dal campo: aerei da guerra turchi avrebbero colpito senza sosta negli ultimi giorni postazioni curde nell’area di Sinjar, in territorio iracheno ma a meno di 20 km dal confine siriano. La conferma dei raid è venuta niente di meno che dal Presidente Erdogan in persona, intervistato martedì da Reuters.
Il leader turco ha insistito con estrema chiarezza sulla vitale necessità di Ankara di continuare a colpire i miliziani curdi sia in Siria che in Iraq, perché identificabili tutti come continuazione politica e militare del PKK. Erdogan ha puntualizzato la condivisione preventiva con Stati Uniti e Russia delle azioni, ma stando alle parole di Toner, Washington cadrebbe dal pero.
La posizione degli USA è delicata: la repressione del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), di ispirazione marxista e inserito della lista dei gruppi terroristici da Ankara, è una questione interna alla Turchia. Le operazioni militari contro la guerriglia curda ormai in disarmo all’interno del territorio turco, si sono spostate tuttavia nel Rojava (Kurdistan siriano) e soprattutto sul fronte nord iracheno, dove i curdi sono particolarmente forti. Come lamenta Washington, è inevitabile che le operazioni turche incidano negativamente nella lotta allo Stato Islamico, all’interno della quale il ruolo dei miliziani curdi è stato finora di primaria importanza.
Contro gli interessi USA gioca anche il governo (sciita) di Baghdad, che seppur alleato fedele nella guerra al Califfato e ufficialmente contrario alle ingerenze turche sul proprio territorio, vede di buon occhio un eventuale ridimensionamento curdo nel nord, soprattutto alla luce dei rinnovati umori separatisti.
A questo proposito va ricordato che una componente strutturale della lotta alla jihad sunnita viene dai paramilitari sciiti (Forze di Mobilitazione Popolare, PMU) che operano sul fronte di Mosul. Il loro rapporto con i curdi è controverso, al punto che i raid della Turchia nel Kurdistan siriano e iracheno, anche se apparentemente in contrasto con la coalizione anti ISIS, finiscono in realtà per fare gli interessi di molti. Erdogan lo sa benissimo e gioca d’astuzia.
L’imbarazzo del Dipartimento di Stato è dato dalle priorità: è più importante la lotta al Califfato o tenersi stretto il recalcitrante (e quasi ex) alleato turco?
Gli equilibri nel triangolo Siria-Iraq-Turchia sono fragilissimi e da essi dipende molto del futuro assetto del Medio Oriente.
(foto: Türk Hava Kuvvetleri - web)
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