Ci sono 100 metri tra il primo caffè sulla sponda nord e il ponte di Austerlitz, chiamato così dai francesi arrivati nel ‘99. Siamo a Mitrovica, precisamente a Kosovska Mitrovica, cuore del Kosovo del Nord e confine di due mondi.
A 300 metri dalla sponda sud del fiume Ibar invece, c’è la piazza con la Moschea. Di caffè lungo la strada se ne incontrano tanti. Molti hanno la tv.
Tra mezzi KFOR parcheggiati svogliatamente, carabinieri italiani in servizio sul ponte e le Golf impolverate della polizia locale, tutto sonnecchia. Perfino nell’agitazione urbana di un mezzogiorno lavorativo.
A Nord le case e le facce di quel che rimane del Kosovo serbo, a Sud un territorio strappato a Belgrado e che ormai risponde solo a Pristina, di fatto indipendente. I tricolori e i festoni serbi sventolano tra palazzi, finestre e muri sbrecciati, pronti a tornare barricata.
Sull’argine di fronte le bandiere rosse con le aquile albanesi rubano il posto a quelle blu inventate per il Kosovo. Sono presenti in modo meno ossessivo rispetto alla sponda serba. Una volta era l’etnia albanese a mettersi in mostra per sopravvivere; oggi che ha ottenuto ciò che voleva, non è più necessario.
In un solo colpo d’occhio, si spiega un intero pezzo di storia europea: il Kosovo, creato a tavolino come Stato indipendente, è in sostanza un pezzo di Albania. L’unificazione nel nome della Grande Albania fu sconsigliata già prima del referendum del 2008 che con l’espansione demografica albanese e il boicottaggio dei fedeli a Belgrado, sancì unilateralmente la secessione dalla Serbia.
L’annessione del territorio di uno Stato da parte di Paesi terzi, anche quando è sacrosanta, per il Diritto Internazionale è più difficile da difendere che non la creazione di uno Stato autonomo. Il caso del Kosovo, che di sacrosanto aveva poco, non ha avuto di questi intoppi e tutto è andato da sé, nell’indifferenza maliziosa del mondo.
Intanto 300 km a sud, vicino a Tirana, inizia Albania-Serbia valida per le qualificazioni agli Europei 2016. Migliaia di cuori cominciano a fremere anche a Mitrovica sulle due sponde del fiume, trascinando dietro a una palla secoli di odio e sangue.
Dirimere la guerra con lo sport non è sempre immediato; spesso anzi, diventa occasione per accendere gli animi e complicare le cose. Basta camminare per la città e rendersene conto.
Passare da un lato all’altro fino a due anni fa era difficile. Sul ponte c’era il check point e si teneva il passaporto a vista. Ora, anche se il ponte è chiuso al traffico da macerie accatastate, a piedi si transita e si può provare a capire. Sui muri pitturati di bianco, rosso e blu di Mitrovica Nord, campeggiano ovunque le cifre 1389 e le quattro C cirilliche dello stemma serbo tradotte in Samo Sloga Srbina Spasava: ”Solo l’unità salva i serbi”. Dal 1389 ogni 28 giugno (il 15 gregoriano) i serbi festeggiano il Vidovdan, che oltre a San Vito commemora la battaglia della Piana dei Merli, il grande sacrificio slavo contro gli Ottomani. Kosovo Polje, poco a nord di Pristina, è un paesotto diventato epico proprio per questo. Non c’è molto altro da aggiungere: un popolo che festeggia una sconfitta non si addomestica facilmente e una partita di calcio non può bastare.
Sull’altra sponda uomini più bassi con il qeleshe in testa e le facce più scure ricordano che i millenni non sono polvere. Se per Belgrado il Kosovo è una provincia serba, per gli albanesi eredi della dominazione ottomana, il Kosova ora è roba loro. Dalla parte degli uni, la Storia; dalla parte degli altri il numero dei figli che nei secoli ha spostato i pesi.
Finché esisteva la Jugoslavia e comandava Belgrado, tutto taceva. Col revanscismo serbo di Milosevic e le paturnie americane però le cose sono cambiate e nel ‘99 è iniziato l’orrore, quarto atto delle guerre jugoslave. I serbi cacciano gli albanesi; gli albanesi e la NATO cacciano i serbi… Con la guerra e la volontà dell’Occidente (gli USA su tutto) si arriva al finto stallo di oggi: dal Ponte di Austerlitz al “confine” serbo 50 km più a nord, è più Serbia della Serbia. Dalla piazza della moschea di Mitrovica fino all’Albania, ormai è tutto Kosovo albanese. I carabinieri e la KFOR separano i contendenti, più stanchi di prima ma egualmente rancorosi.
Da una parte croci ortodosse su tombe di soldati serbi, scritte cirilliche e stature slave. Dall’altra, lapidi islamiche di miliziani UCK, l’odore dei caffè turchi e occhi più scuri.
Le tv dei caffè parlano in lingua diversa sulle due sponde dell’Ibar, dando il risultato di Albania-Serbia con toni opposti.
No. Non può bastare una partita di calcio.
[continua]
(FOTO: autore/Vojska Srbije)