Passa un fuoristrada della TIPH, la Temporary International Presence in Hebron. Schizza veloce in salita sfumando il suo colore bianco sullo sfondo dei palazzi. Ad un angolo parlottano e ridono due soldati dai lineamenti eritrei della Magav, la Polizia di frontiera israeliana. Il grigio della divisa si confonde con la luce fioca del pomeriggio.
H1, come è chiamato il lato arabo di Hebron, pullula di spigoli e cubi di cemento. Il muezzin accompagna il sole che scende e in una normalità apparente tutto finisce.
Camminare per Hebron, la Al Khalil degli arabi, è strano. Se non fosse per il freddo che inizia già a ottobre, sembrerebbe un posto qualsiasi del Medio Oriente. Ein Sarah street, tra i rumori e il disordine di tutti i giorni, porta dritta al cuore della città tra salite e discese, macchiate qua e là dal giallo dei taxi e dal caos delle insegne. In realtà Hebron di cuori ne ha due e ognuno batte per sé.
Alla Tomba di Abramo si capisce tutto. Gli ebrei la chiamano Grotta di Machpela; gli arabi, Moschea di Abramo. Abramo unisce, Abramo divide.
Camminando per Hebron l’idea di divisione è costante: percorsi distinti da new jersey per coloni e arabi; check point e valichi che tagliano strade; barricate fisse sparse per la città; innocui spartitraffico che separano i sensi di marcia…
Ma più di tutti è la presenza di settlement ebraici a dare l’idea di contesa. Sono in continua espansione secondo gli arabi; in affanno perché dimenticati dai governi traditori di Tel Aviv, secondo i coloni.
H1 e H2 sono il perno di una convivenza insana. H1 controllata dall’Autorità Palestinese, si svilisce nel declino economico e umano della sponda araba. H2 è la parte abitata anche da arabi ma controllata da Tsahal, padrone indiscusso del campo. Per difendere 100 famiglie di ebrei dell’antico quartiere ebraico ci sono quasi 4000 soldati israeliani, contando polizia e polizia di frontiera. Intorno vivono per un assedio reciproco quasi 40.000 palestinesi.
A ridosso del vecchio mercato ci vogliono 2 shekel israeliani per un succo di melograno. Insieme ad arance, uva, vetri e ceramiche è l’orgoglio di questa terra.
Il figlio del gestore ha 15 anni e si chiama Ahmed. Incassa i soldi e sorride. Passa una pattuglia della fanteria israeliana in assetto di guerra: mitznefet in testa e dito sul grilletto. Sono soldati del 92° battaglione Shimshon, parte della Brigata 900, la Kfir, di stanza in Cisgordania.
Ahmed c’è abituato e non li guarda. Pensa più a Cristiano Ronaldo e a Messi che alla politica. Questa è terra di Abu Mazen, di Al Fatah. Anche se Hamas è lontana il sangue ha il colore del melograno e scorre ancora.
Il sangue è alimentato dall’odio. Qualche commerciante arabo del vecchio suq, circondato da continui lanci d’immondizia dei coloni estremisti, resiste ancora. Nessuno toglie nulla, affinché il mondo veda. Intransigenza ebraica e vittimismo arabo si rincorrono senza fine.
“Questa è terra araba da 1200 anni. I sionisti costruiscono case e ci cacciano con le armi…” dice il padre di Ahmed, brav’uomo pieno di certezze. Sa che gli arabi come lui sono la maggioranza schiacciante della città ma non i padroni. Vale per tutta la Cisgiordania e per il resto della Palestina a sentire lui.
“Questa è Terra d’Israele da 2000 anni prima degli arabi. La Palestina è un nome geografico e come nazione è un’invenzione esterna alla storia islamica. Gerusalemme nel Corano non esiste…” Lo dice la Torah, lo dicono gli ebrei di Hebron.
Per il padre di Ahmed gli ebrei sono razzisti che perseguono la pulizia etnica. Per i coloni, le case occupate dagli ebrei sono quelle degli antichi abitanti della Terra Promessa. Prima del loro ritorno, fino al Mandato Britannico non c’erano che paludi e sassi.
Hebron è tutta qui: un gruppo di colline stanche e rocciose che racchiudono l’eterno conflitto tra due mondi che si raccontano da sé: parlano le porte verdi dei negozi abbandonati di al Shuhada; parlano i check point blindati dell’IDF onnipresente; parlano le canne dei fucili dei cecchini che spuntano dai tetti e i percorsi separati di ogni venerdì, giorno sacro agli islamici e vigilia del sabbath ebraico.
La pace qui è mascherata di silenzio gonfio di rancore. Si respira, si vede.
La famiglia di Ahmed vive vicino alle case di nuovi settler, come si chiamano universalmente i coloni. Per “questioni di sicurezza” i movimenti sono limitati e per uscire si deve fare un giro più largo. I soldati israeliani vanno per le spicciole: chi trasgredisce rischia la vita. La “sicurezza” è la risposta universale ebraica a ogni questione: è causa e conseguenza del fuoco che cova sotto la cenere di Hebron. Non a caso il partito religioso nazionalista sionista HaBayit HaYehudi, la Casa Ebraica, qui è fortissimo. Tra H2 e Kiryat Arba, settlement appena fuori la città, i coloni arrivano a 9000 presenze tutte d’accordo su un punto: nessun compromesso con gli arabi.
Prima del tramonto il mercato nuovo si svuota. Hebron di sera si scopre meno spavalda che di giorno. La paura non lascia del tutto il posto all’abitudine. Con la luce artificiale s’intuisce la macchia oro oliva di un drappello di soldati israeliani. Accade qualcosa.
Oggi ci sono stati problemi a Tel Rumeida e ricomincia la tensione. Un altro assalto, un altro ferito grave. È l’intifada dei coltelli. Da un mese procede per assalti singoli e imprevedibili, senza una vera regia. L’insorgenza araba si propaga ora con odio random, nuova frontiera della resistenza a Israele.
Israele risponde caso per caso, giorno per giorno, colpo su colpo.
Indolenza, ignoranza e intransigenza si sovrappongono in modo irrazionale. Come tutto a Hebron. Quando arriveranno pioggia e neve, ci sarà il fango. Allora sarà anche peggio.
(continua)
(foto: autore/ DD'O/IDF)