L’uccisione di un ambasciatore è un fatto di per sé inaudito e tra i più gravi che il protocollo delle relazioni internazionali possa annoverare. Il suo effetto immediato appare dirompente e s’inserisce appieno nel complicato groviglio delle relazioni tra Russia e Turchia.
In apparenza il rapporto fra i due Paesi ruota come un derviscio, lasciando intendere ben poco della linea che seguirà a breve. A guardare meglio però, non è così. Una sola parola continuerà a regnare sovrana anche stavolta: pragmatismo. La diplomazia in fondo altro non è che una forma nobile di cinismo.
Ankara, tornata a Canossa dopo l’azzardo dell’abbattimento del Sukhoi russo nel novembre 2015, ha riavvicinato Mosca la scorsa estate. Un interlocutore autorevole nel calderone siriano era indispensabile per la Turchia soprattutto per poter raggiungere l’unico obiettivo di cui ha veramente bisogno: garantirsi sicurezza sul confine sudorientale dove l’indipendentismo curdo e l’affluenza massiccia di profughi sono da tempo un problema strategico.
In questo ambito Erdogan ha una carta negoziale importante, data dal sostegno alle milizie ribelli del nord della Siria. Il rubinetto degli aiuti turchi finora ha tenuto in piedi il fronte anti Assad nei governatorati di Aleppo e Idlib, e nella logica dei futuri assetti in Medio Oriente avrà certamente un peso. Quanto, dipende dai giochi politici in corso.
La riabilitazione della Turchia per Mosca è stata invece, almeno fino alle elezioni presidenziali USA, un’abile mossa diplomatica utile ad indebolire l’asse storico Ankara-Washington, già messo a dura prova dal tentato golpe di luglio. Il Cremlino ha capito per tempo che avrebbe ottenuto molto di più dalla Turchia con le buone, che agitando le acque già poco tranquille tra i due Paesi.
I risultati sono arrivati subito e i primi effetti tangibili si sono visti in Siria. Senza accordi bilaterali tra Mosca e Ankara, l’evacuazione dei miliziani ad Aleppo non ci sarebbe stata, la battaglia urbana non sarebbe finita e soprattutto Assad non ne sarebbe uscito vincitore. Se nel 2017 la guerra in Siria avrà un termine, senza ombra di dubbio la Turchia sarà fra i protagonisti del tavolo negoziale. Avere un mezzo amico seduto di fronte, è sempre meglio che avere un nemico intero. Questo Putin lo sa benissimo.
Tutto rose e fiori dunque?
L’uccisione dell’ambasciatore Karlov sembrerebbe un ostacolo a questo trend, capace di riportare le relazioni russo-turche al buio di fine 2015. Le parole ufficiali di Putin riguardo alle responsabilità turche sulla sicurezza, sono state chiarissime.
In realtà è presumibile però che da questo evento efferato a guadagnarci in qualche modo sia proprio la Russia, il cui tallone d’Achille rimane la cattiva luce in cui è stata cacciata negli ultimi anni dal mainstream politico e mediatico occidentale.
Nemmeno l’impegno ventennale contro il terrorismo di matrice islamista, costosissimo per Mosca sotto il profilo umano e finanziario, è servito a rompere il cerchio. Ragioni politiche superiori hanno continuato a lavorare incessantemente (e con buoni risultati) per mettere Putin nell’angolo.
Ritrovarsi oggi nel ruolo di vittima plateale del terrorismo per la Russia non può che essere un toccasana. Per quanto cinico possa apparire, aiuterà quel cambio di rotta a cui saranno costrette molte cancellerie, su cui avrà un peso decisivo l’ingresso di Trump alla Casa Bianca.
L’effetto drammaturgico in fondo c’è tutto. L’uccisione di un ambasciatore, in quanto profanazione di una sacralità riconosciuta da tutti, tocca le corde emotive non solo degli addetti ai lavori. Oggi i russi possono sfilare in silenzio e ricordare al mondo che il male non conosce limiti. Sotto questo profilo, i funerali di Stato dell’ambasciatore Karlov saranno un messaggio al mondo molto chiaro:
“Avete capito adesso chi sono i cattivi?”
La presenza di Putin, che per l’occasione ha spostato l’attesa conferenza stampa di fine anno, aumenta la drammaticità di una piazza che l’opinione pubblica occidentale fatica sempre più a inquadrare come il nemico.
Non tutti sembrano rendersene conto però. Mentre i futuri equilibri geopolitici maturano, qualcuno continua a rimanere prigioniero del XX° secolo. Proprio in questi giorni l’Unione Europea ha rilanciato per altri sei mesi le sanzioni contro la Federazione Russa, avviandosi a due traguardi prestigiosi: cedere terreno commerciale alle economie asiatiche pronte a subentrare ai rapporti Bruxelles-Mosca; cedere terreno politico e commerciale agli Stati Uniti, che tra un mese inaugureranno una stagione tutta nuova di relazioni internazionali, di cui probabilmente sarà l’Europa la vittima più prestigosa.