Iniziano i lavori per arrivare ad un accordo di pace generale in Siria. Sotto una neve copiosa, al Rixos President hotel di Astana, capitale del Kazakistan, i principali protagonisti della guerra che dura dal 2011 si confrontano per mettere la parola fine ad una tragedia dai costi umani e materiali incalcolabili.
Due aspetti centrali:
- i colloqui di pace sono organizzati da Russia, Iran e Turchia, i primi attori del teatro siriano che seppur a diverso titolo, sono investiti ufficialmente del ruolo di imprescindibili problem solver;
- i colloqui si svolgono nella gelida Astana, capitale di un Paese inserito a pieno titolo nello spazio geopolitico russo, a conferma che cosa sarà la Siria domani non è più un affare occidentale o almeno non in via esclusiva.
I colloqui sono il prodromo di un’altra sessione prevista per i primi di febbraio a Ginevra, ma per modalità e partecipanti sono emblematici dei pesi che influenzeranno gli accordi finali. La durata prevista è di sole 24 ore, che sotto il profilo diplomatico ha un significato ben preciso: questa tornata di colloqui non serve ad arrivare ad un punto concreto, quanto a stabilire in via ufficiale chi avrà davvero voce in capitolo.
Oltre ai citati Russia, Iran e Turchia (che non hanno inviato i ministri degli esteri, ma delegati di secondo piano) partecipano alla seduta il governo di Damasco, il cartello che rappresenta le principali opposizioni ad Assad e l’abulico Staffan de Mistura, messo speciale di un’ONU e finora mediatore impalpabile.
Gli Stati Uniti, alle prese con una vera e propria rivoluzione interna a Washington, sono nella delicatissima fase di passaggio dei poteri e si limitano a essere presenti con l’ambasciatore USA ad Astana senza l’appoggio di una delegazione speciale. È il segnale del tramonto della politica mediorientale americana legata all’amministrazione Obama in attesa dei nuovi assetti dell’era Trump.
I lavori, aperti dal ministro degli esteri kazako Kairat Abdrakhmanov, avvengono in un clima rigido, e non solo per la neve e i -15° di Astana.
Bashar Jaafari, ambasciatore siriano all’ONU e capo della delegazione di Assad, non incontrerà direttamente i rappresentanti delle opposizioni. I colloqui avverranno per “interposta persona” attraverso la mediazione di Russia e Turchia.
Il dato la dice lunga anche sull’effettiva situazione politica e militare sul campo. Se da un lato Mosca è lo sponsor degli interessi siriani, dall’altra è Ankara a garantire per i gruppi ribelli, di cui è diventata la rappresentante politica. Non a caso tra tutti i gruppi d’opposizione presenti ad Astana spicca il ruolo dell’Esercito dell’Islam, appoggiati dalla Turchia e presente ai colloqui dopo la garanzia di un allontanamento dall’Arabia Saudita (principale partner fino al 2015).
In sintesi, il riavvicinamento fra Mosca e Ankara iniziato a giugno 2016 ha avuto tra i principali scopi ed effetti proprio quello di incidere bilateralmente sulla “Questione siriana” facendo dei due Paesi i protagonisti assoluti di un possibile accordo futuro.
Se la Russia in questo modo consolida l’investimento fatto in Medio Oriente, la Turchia trasforma uno scenario fino a ieri politicamente catastrofico in un trionfo diplomatico: comunque andranno le cose ad Astana prima e a Ginevra poi, i gruppi armati del nord (soprattutto la componente turcomanna) avranno la loro parte; è il prezzo che dovrà pagare Assad per rimanere in sella.
Il rovescio della medaglia riguarda ovviamente i curdi, la cui esclusione dai lavori è l’unico punto su cui convengono tutte le parti, Iran compreso.
Come sosteniamo su questa rubrica dall’estate scorsa, chi pagherà il prezzo più alto per il futuro riassetto della Siria, saranno proprio i curdi. Nonostante i grandi progressi militari sul fronte di Raqqa, non appena lo “sgancio” americano avrà i suoi effetti, la ricaduta geopolitica sarà visibile. In questo senso il peso della Turchia sulla fondamentale alleanza con Washington è e rimarrà determinante.
(foto: web)