Taiwan: “Non ci sarà mai una guerra con Pechino”

(di Giampiero Venturi)
24/05/16

L’attenzione è tornata sullo stretto tra Formosa, come la chiamavano i portoghesi, e la Cina continentale. Ci è tornata per qualche giorno, oltre quel limite di guardia che per la “Cina ribelle” è sempre alto da 60 anni.

Il 20 maggio 2016 si è insediata a Taipei la nuova presidente Tsai Ing-wen e ha lasciato una scia di clamore sui media di tutto il mondo.

Il grande risalto è dovuto essenzialmente a tre motivi. Uno demagogico: la Tsai Ing-wen è donna, la prima a Taiwan a diventare capo di Stato e come per ogni debutto femminile, si srotola rapido il tappeto rosso dei luoghi comuni. A questo proposito è bene prepararsi alla sceneggiata per l’incoronazione della Clinton alla Casa Bianca nel gennaio 2017…

In secondo luogo la nuova presidente è esponente del Partito Democratico Progressista che con la vittoria alle presidenziali del 2016, per la prima volta nella storia dell’isola mette da parte il Kuomintang. Questo secondo punto è una svolta non tanto nelle relazioni fra Taipei e Pechino, quanto fra Taiwan e l’Occidente, che col nazionalismo taiwanese ha sempre avuto un rapporto controverso, in modo particolare negli ultimi 20 anni, quando il processo di riforme nell’isola ha iniziato a cambiare l’immagine del Paese.

Finché l’eredità di Chiang Kai-shek serviva ad arginare il pericoloso rosso cinese, tutto faceva brodo. Da quando la Cina è diventata partner privilegiato di Europa e USA, le carte in tavola sono cambiate all’insegna del reciproco interesse e dell’ipocrisia: chiudiamo gli occhi su diritti umani e autoritarismo politico cinese; le impennate nazionalistiche e indipendentiste di Taipei hanno cominciato ad essere scomode. A dire il vero da tempo sono scomode nella stessa Taipei, dove la cerimonia dell’insediamento del nuovo presidente non avviene più sotto l’immagine di Chiang Kai-shek ma sotto l’occhio vigile di Sun Yat-sen, altro padre della Patria ma dalle posizioni più morbide e rivendibili in un Occidente drogato di “politicamente corretto”.

La terza ragione per cui la Tsai presidente ha fatto notizia è la sua posizione ufficialmente indipendentista. Non a caso i giornali continentali hanno evitato la notizia dell’insediamento, tenendo fede alle due posizioni storiche della Cina: Taiwan è niente di più che una provincia ribelle; chiunque si manifesti pubblicamente come indipendentista e non riconosca la legittimità formale del ricongiungimento sotto la bandiera di Pechino, non può essere un interlocutore.

Nel suo discorso d’insediamento la Tsai non ha menzionato l’unicità dello Stato cinese, creando molto malumore a Pechino. La novella presidente ha addirittura fatto parte del pool di esperti politici che ha lavorato all’idea di “una Cina-due Stati”, viatico alla dichiarazione d’indipendenza da Pechino. 

Dietro il fumo di copertura però c’è ben poco e l’indipendentismo della Tsai rappresenta una posizione più che altro formale. Più simile ad una professoressa di letteratura che ad un’agguerrita paladina del separatismo taiwanese, la nuova n.1 sembra seguire le orme del suo “padre politico” Lee Teng-hui ex presidente di Taiwan, sostenitore per una vita dell’indipendenza ma ben lungi dal fare qualcosa per dichiararla.

In altre parole, a Taipei vince il nulla di fatto. Sia il nuovo presidente (la forma di governo si avvicina alla repubblica presidenziale di tipo occidentale) che la Repubblica Popolare ribadiscono la loro storica posizione, cioè abbaiare tantissimo affinché nessuno si morda: Taiwan continua a sbandierare la sua autonomia senza proclamarla; Pechino minaccia invasioni ogni sei mesi e aumenta le esercitazioni militari nello stretto, ben sapendo però che la guerra non ci sarà mai.

Per capire la situazione basta dare un’occhiata alle relazioni diplomatiche di Taipei, de facto in vigore con quasi tutti, ma ufficialmente solo col Vaticano e una serie di Stati geopoliticamente insignificanti. Tra i primi a chiudere l’ambasciata a Taipei all’insegna del “non offendiamo Pechino” fu il Sudafrica progressista di Mandela…

Ciononostante Taiwan è tornata di grande attualità e continua ad avere un ruolo strategico fondamentale in Estremo Oriente. Se alle tre yellow wars degli USA (Giappone, Corea e Vietnam) ne seguirà una quarta con la Cina nel XXI° secolo è ancora presto per dirlo. Taiwan rimane però uno dei tre punti di rilevazione della temperatura nei rapporti fra USA e Cina, insieme alla penisola coreana e il Mar Cinese meridionale. L’isola rappresenta il punto di mezzo tra gli attriti intorno alle isole Paracel al largo delle coste del Vietnam e il caposaldo del Pacifico della VIIa flotta americana, ufficialmente argine contro Pyongyang, in realtà sentinella sull’espansionismo cinese.

Il futuro dei rapporto fra Taipei e Pechino è più regolato dalla finanza che dai muscoli. Gli investimenti cinesi a Taiwan sono aumentati del 38% tra il 2015 e il 2016 e le esercitazioni militari di gennaio del 101° Battaglione di Ricognizione (gli uomini rana famosi come draghi di mare) sull’isola di Kinmen in funzione anti-cinese lasciano il tempo che trovano.

Da non dimenticare che taiwanesi e cinesi continentali sono entrambi prevalentemente di etnia han, cioè la stessa gente divisa da uno stretto e dalla politica (finora). Possiamo dire quindi un popolo, una nazione e mezzo? Probabilmente sì.  

Considerando la crisi economica di Taiwan e l’inizio di un decremento di crescita per Pechino, è fin troppo evidente che l’escalation degli attriti che durano da decenni e la guerra che ne potrebbe conseguire sono scenari che non convengono a nessuno e che in realtà nessuno vuole.

Lo scontro fra Cina e USA passerà per lo stretto, ma con ogni probabilità non toccherà nessuna delle due sponde della Cina.

(foto: 中華民國國軍)