Il 9 ottobre due missili antinave lanciati dai ribelli houthi hanno preso di mira il cacciatorpediniere americano USS Mason all’altezza dello stretto di Bab al Mandab, nel Mar Rosso, a ridosso delle coste yemenite. Gli ordigni hanno mancato il bersaglio, secondo quanto riportato dal Pentagono, e la nave non ha risposto al fuoco.
Solo pochi giorni prima la nave d’appoggio HSV2 era stata colpita e incendiata da altri missili antinave lanciati dagli stessi ribelli houthi nei pressi del porto di Mocha. Fonti locali hanno indicato il cargo come nave-rifornimenti di proprietà USA ma affittata dalle forze navali degli Emirati Arabi per l’occasione (ricordiamo che ufficialmente Abu Dhabi è uscita dalla coalizione a guida saudita dal giugno 2016).
Basterebbero queste due notizie per sintetizzare lo stato dell’arte in una delle aree geopoliticamente più calde del mondo.
Facciamo un passo indietro.
Nella parte più a sud, il Mar Rosso si strozza nello stretto di Bab al Mandab, un imbuto largo non più di 20 km. La sponda yemenita è in mano alle forze fedeli a Saleh che combattono contro la coalizione sunnita. I miliziani houthi controllano tutta le regioni occidentali del Paese, dalle aeree portuali di Mocha e Hudaydah, fino e oltre al confine con l’Arabia.
La costa sudoccidentale del Mar Rosso è invece divisa tra Gibuti (con la base americana di Le Monier) ed Eritrea, i cui governi hanno una posizione pro Riad, benché limitata ad un appoggio logistico. Anche alcune delle isole vicine allo stretto (Zuqar e Hanish) sono in mano alle forze di Hadi, presidente sunnita sostenuto dalla coalizione e dall’Occidente.
Da ciò s’intuisce quanto cruciale sia lo scontro in corso nella parte ovest dello Yemen e l’accanimento delle forze aeree saudite proprio contro obiettivi ribelli (con stragi di civili continue…) concentrati lungo le città della costa.
Le capacità militari dei miliziani houthi e in genere delle forze sciite pro Saleh sono in continuo progresso. Oltre ai missili cinesi anti nave (quelli terra-terra stanno devastando da mesi le basi saudite) sarebbe in evoluzione, grazie all’appoggio di Iran e Hezbollah, soprattutto la competenza in termini di forze navali speciali. Un corpo d’incursori subacquei houthi sarebbe stato addestrato proprio da Hezbollah per assalti da compiere nel Mar Rosso. Sui numeri, tra propaganda e silenzio, è impossibile avere dati certi.
Il fatto rientra in un quadro più generale.
L’invasione saudita dello Yemen doveva essere una guerra lampo volta a isolare i ribelli sciiti sulle montagne dell’interno e a ripristinare nel Paese il potere del sunnita Hadi. In realtà si è risolta in un disastro umanitario che dura ormai da quasi due anni.
Le difficoltà militari saudite hanno aumentato l’instabilità che proprio sulle coste del Mar Rosso trova il suo punto più critico: nelle regioni occidentali dello Yemen i ribelli sono forti e tengono sotto scacco un’area dal valore strategico di livello globale.
Bastano alcuni dati.
Allo stretto di Bab al Mandab a sud, corrisponde il Canale di Suez a nord. Per Suez passa l’8% del traffico marittimo mondiale e il 5% del traffico di petrolio. Con le sue 100 navi al giorno (fino al raddoppio del Canale del 2015 erano solo 50) è il più importante nodo marittimo globale, senza limiti di tonnellaggio. Dopo i lavori di ampliamento, molto traffico tradizionalmente diretto a Panama, oggi passa per il Mar Rosso e la tendenza è in aumento.
La guerra dello Yemen, può avere dunque ripercussioni sull’economia mondiale?
Decisamente sì.
Gli USA se ne sono accorti e hanno inviato rinforzi alla Quinta Flotta, competente per il Mar Rosso e l’Oceano Indiano. La USS Mason, bersaglio dei missili yemeniti, ne fa parte.
La presenza americana nell’area è forte e in crescita. Oltre alla base di Aden (il 12 ottobre sono 15 anni dall’attentato al cacciatorpediniere USS Cole, ancorato proprio ad Aden), c’è l’isola di Socotra e la già menzionata Gibuti.
Più che un deterrente strategico, l’azione americana sembra però un correre ai ripari. Nel quadro regionale la situazione non è affatto fluida e la sola presenza militare sembra poco utile se non sopportata da un disegno geopolitico di lungo periodo.
A questo proposito e in relazione all’importanza di Suez, resta da vedere infatti il ruolo dell’Egitto.
Al Sisi è stato uno dei patrocinatori della coalizione sunnita pro Hadi. Il suo appoggio all’Arabia Saudita però si integra in una posizione geopolitica molto più complessa.
L’Egitto, ferito dall’estremismo islamico che dilaga nel Sinai, è in prima linea nella lotta al terrorismo internazionale. Acerrimo nemico della Fratellanza Musulmana, appoggia Haftar che la combatte in Libia. La posizione assunta pone Il Cairo in attrito con l’Occidente, tutore del governo semi-islamista di Tripoli. Lo pone in attrito anche con la Turchia che invece ha ottimi rapporti con Riad.
Non solo. Nonostante le smentite ufficiali, da mesi si parla di possibili basi militari russe sul territorio egiziano. Le relazioni fra Al Sisi e Putin sono ottime così come i rapporti commerciali fra i due Paesi. Non a caso le Mistral costruite in Francia e destinate originariamente alla Russia, sono ora egiziane ma equipaggiate con elicotteri Kamov forniti da Mosca.
Con chi sta allora l’Egitto?
Il Cairo gioca una partita a scacchi indipendente, tutelando i propri interessi a seconda della fattispecie. Se nello Yemen ha una posizione ufficiale pro Occidente e anti-iraniana, in Libia si espone e strizza l’occhio alla Russia. Il fatto che Mosca flirti con l’Iran a tutto tondo, sembra un corto circuito ma non lo è: tanto per fare un esempio, l’Egitto si è espresso a favore dei raid russi in Siria (stessa posizione di Teheran) con uno slancio tale da creare malumore a Washington.
Molto probabile quindi che nella guerra dello Yemen Il Cairo difenda i suoi interessi diretti, non quelli generici dell’Occidente, dando prova di un dinamismo diplomatico eccezionale. Probabile anche che si riallacci un contatto con Ankara, tramite gli accrediti che Erdogan si è conquistato a Mosca.
Con il piede in due scarpe Al Sisi si tiene stretta soprattutto Suez, vitale per le sue casse. I pedaggi delle navi (intorno ai 150.000 euro a passaggio) sono una risorsa essenziale per l’Egitto: dopo le rimesse degli emigranti e il turismo è la terza voce del bilancio nazionale.
In conclusione, sarebbe opportuno interpretare quanto succede nello Yemen secondo l’importanza che merita. Dietro l’atroce conflitto locale su cui soffiano gli sponsor regionali Arabia Saudita e Iran, si nasconde in realtà uno scontro dalle conseguenze economiche e geopolitiche di portata molto più ampia.
Solo i Paesi che hanno lungimiranza politica potranno trarne vantaggi di lungo termine.
(foto: US Navy - AMN)