Sono passati 74 anni dalla battaglia di Filottrano, ma quei paracadutisti della divisione Nembo, morti per salvare la popolazione civile chiusa tra l’incudine dei tedeschi e il martello degli alleati, di quei ragazzi se ne percepiva la presenza, durante la commemorazione, il 7 luglio, organizzata come ogni anno dall’Associazione nazionale paracadutisti d’Italia Anpd’I di Ancona e dal comune della cittadina nelle Marche. Sembravano tutti lì, a rispondere “Presente!” ogni volta che venivano evocati, magari – chissà… – tra un sorriso e una battuta goliardica tipica dei parà.
Filottrano non dimentica i “suoi” ragazzi della Nembo e quel ricordo non è un mero dovere istituzionale, ma è sentito, partecipe, commosso, grato.
Tra le testimonianze dirette riportate dallo storico Giovanni Santarelli (che è anche il curatore del museo dedicato a quegli eventi, che andrebbe visitato per l’accuratezza e la ricerca sul campo), nel libro “La battaglia di Filottrano”, c’è quella di Danilo Borsini, che ai tempi era un ragazzino. Sfollato con la famiglia a 3 chilometri da Filottrano, vide sbucare dalla collina degli uomini armati. Era il 7 luglio del 1944. Quegli uomini erano paracadutisti. Uno di loro, a un tratto, “fece una strana richiesta: voleva il necessario per radersi…”, racconta. Il paracadutista prese una cassa di legno, di quelle che i contadini usano durante la vendemmia, la capovolse e iniziò a radersi, cantando sottovoce. Il giovane lo guardava. “Ad un tratto gli chiesi: Perché ti fai la barba? E lui, senza scomporsi: per andare a morire!...”. Terminata la rasatura, raggiunse di corsa i suoi compagni in direzione di Filottrano. La sera, arrivò la notizia che quattro paracadutisti erano rimasti uccisi. Tra questi c’era anche quel soldato: era Felice Chinetti, sergente maggiore del 183° reggimento Nembo, XV battaglione, 44a compagnia. Sapeva di andare incontro alla morte, aveva voluto andarci in ordine, con quella serenità di chi accetta il proprio destino, quando l’ideale è alto, quando sai che il tuo sacrificio non sarà inutile, perché di vite ne salverai altre. Per questo Filottrano ricorda con gratitudine quei ragazzi.
Dieci giorni, dal 30 giugno al 9 luglio del 1944: tanto sono durati i combattimenti casa per casa, per cacciare i tedeschi durante la loro “ritirata combattuta” che sparavano su qualunque cosa si muovesse. E che resistevano, arroccati dentro il castello di Centofinestre che dominava la collina e poi nel monastero di Santa Chiara e nell’ospedale, di cui avevano occupato l’ala est piazzando mitragliatrici alle finestre. Per eliminarli definitivamente, gli alleati avevano deciso di bombardare e radere al suolo Filottrano: questo avrebbe significato la morte di tanti civili innocenti, che già erano vittime incolpevoli per le sofferenze causate dalla guerra. Le loro morti sarebbero state “effetti collaterali” per gli alleati, ma non per i paracadutisti della Nembo e per il loro comandante Giorgio Morigi, del Corpo Italiano di Liberazione, che si opposero alla follia del progetto. E combatterono, insieme ai soldati del Corpo polacco. I tedeschi alla fine se ne andarono, ma il prezzo pagato con il sangue fu altissimo: i soli militari italiani caduti furono 135, senza contare i polacchi e le vittime civili.
Il 7 luglio è stata una giornata dedicata a loro, con le cerimonie iniziate il mattino a Sforzacosta, la cui liberazione aprì la strada per Filottrano, davanti ai nomi dei 24 caduti mentre avanzavano lungo il fiume. E dopo la deposizione delle corone di alloro, non potevano mancare gli aviolanci da parte di militari e civili, aperti da Fausto Corvini e conclusi dal presidente dell’Anpd’I di Ancona Marco Andreani. Gli aviolanci, con fune di vincolo e a caduta libera, sono poi proseguiti a Filottrano, dove nel pomeriggio la cerimonia è iniziata con l’alzabandiera, in piazza Cavour, sulla torre storica dell’acquedotto. Il corteo con i vari labari ha poi sfilato per le vie della cittadina, con soste ai monumenti dei caduti di tutte le guerre e ai fucilati civili, con il clou della corona di lauro, dei fiori e del picchetto d’onore alla scultura che ricorda i ragazzi della Nembo, davanti l’ospedale. E poi di nuovo in piazza Cavour, per i discorsi finali e la celebrazione liturgica.
Con il primo cittadino di Filottrano Lauretta Giulioni c’erano i colleghi dei comuni limitrofi, in primis di Poggio Rusco, con cui la città marchigiana è gemellata. C’era l’associazione nazionale Nembo, associazioni di paracadutisti da Francia e Belgio e, tra le autorità militari, i comandanti del 185° reggimento paracadutisti R.A.O. col. Alessandro Grassano, del 185° reggimento artiglieria paracadutisti “Folgore” col. Ettore Gagliardi, che ha donato al museo della battaglia di Filottrano l’uniforme del generale artigliere paracadutista Antonino Giampietro e il comandante del 183° reggimento paracadutisti Nembo, col. Mariano Bianchi. Il console polacco ha inviato un messaggio di saluto.
Tra le peculiarità dei paracadutisti c’è quella della fratellanza in armi che diventa quasi di sangue, in una continuità spazio temporale in cui nessuno viene dimenticato, mai, men che meno i caduti. Gli aviolanci, allora, assumono un valore aggiunto, quello della dedica, che ha il potere di legare in un filo indissolubile i parà di ieri con quelli di oggi, un filo della memoria e della condivisione. E siccome di paracadutisti si tratta, all’emozione si aggiunge la sana allegria di una discesa da parte di gente esperta che ti regala uno spettacolo magnifico.
Perché quell’ala che all’inizio intravedi solamente dopo il rombo dell’aereo, un puntino in cielo che magari esce da una nuvola, pian piano scende e colora l’orizzonte. Così, la giornata si è conclusa con altri lanci tcl su un prato condiviso con i girasoli e, dulcis in fundo, la formazione del canopy relative work del presidente dell’Anpd’I di Ancona Marco Andreani con Renzo Carlini, istruttore di grande esperienza. La tecnica, uno sulle spalle dell’altro, è bellissima da vedere ma oggettivamente difficile da eseguire, bisogna essere estremamente esperti e avere una grande dose di fiducia reciproca. A chiusura dei lanci, il campione mondiale dell’Esercito, col. t.o. Paolo Filippini è sceso con una bandiera di 180 metri quadrati “gentilmente prestata da Asd Paracadutismo Belluno”.
Filottrano è stato l’evento più importante nella preparazione per la grande battaglia per Ancona e il suo porto. I tedeschi stavano ripiegando verso la linea Gotica e difendevano gli accessi al nord Italia, con l’idea di impedire che si arrivasse a combattere a casa loro. Gli alleati si erano attardati a Montecassino, stavano risalendo con fatica e dovevano rifornire con urgenza le armate ferme a Napoli, Taranto, Bari. Avevano bisogni di ulteriori sbocchi sul mare, quindi i porti di Livorno sul Tirreno e Ancona per l’Adriatico.
La battaglia di Filottrano bisognerebbe farla studiare a scuola, seriamente, sottolinearne il valore. E non solo perché da qui gli alleati sono arrivati ad Ancona e le sorti della guerra hanno cominciato a prendere una piega definitiva. Ma soprattutto perché questi ragazzi, sacrificando le loro vite e senza un attimo di esitazione, risparmiando alla popolazione altre sofferenze, mentre contribuivano a cacciare i nazisti dall’Italia hanno dimostrato cosa vuol dire amare il proprio Paese. Sono un esempio di cui andare fieri.
L’Amore, quando è vero, è quello che offre e si offre, senza nulla chiedere, che sia una relazione o per un ideale. Nel sacrificio di questi ragazzi c’è amore per la Patria, per la gente inerme e per l’onore: non sono cose distinte, piuttosto sono lo stesso meraviglioso canto declinato a più voci. In aggiunta a quell’orgoglio di portare quell’uniforme e quel basco amaranto, l’orgoglio di chiamarsi Nembo e cercare di esserne degni, ieri come oggi.
Del resto, se hanno come motto “…e per rincalzo il cuore!”, un motivo ci sarà.
(foto: autore / web)