“Guarda che non posso correre molto, ho mal di schiena…”.
“Sono affari tuoi!”. Che tradotto, vuol dire: “Se inizi l’esercitazione la porti a termine come tutti gli altri, altrimenti rimani da una parte e guardi”.
È giusto. Allora ti fai passare ogni incertezza e corri anche tu, con un fucile in mano, avanzando con lentezza, tra soldati veri e sanitari militari. In quel momento non ti senti più un pesce fuor d’acqua ma ti rendi conto che sei parte integrante di un gruppo, dopo due giorni di condivisione intensa siamo una squadra unica, unita. Camminiamo con attenzione nell’erba, in fila sfalsata: se un cecchino dovesse prenderci di mira, non ci troverebbe tutti sulla stessa traiettoria, non farebbe strike come con i birilli al bowling.
Ci guardiamo comunque intorno. C’è tensione. All’improvviso, cominciano a spararci addosso, non capiamo bene da dove, ma siamo decisamente under fire. Ci si abbassa, si corre al riparo ma qualcuno viene ferito. Nessuno va lasciato indietro e allora quel ferito viene preso e trascinato via, in un luogo riparato, sperando che possa camminare. Non accade, quindi è sollevato di peso, tra le pallottole che fischiano intorno e il fango dove si affonda. Finalmente, adagiato a terra, viene controllato: dove è stato ferito? anche sotto il giubbotto antiproiettile? e con quale gravità? Gli vengono fornite le prime cure. Bisogna far presto. Intanto i cecchini continuano a sparare nella nostra direzione e l’elicottero che deve venire a prenderci, se non c’è un minimo di sicurezza, non atterrerà.
Il luogo dove ci siamo momentaneamente rifugiati non è sicuro. Tutti urlano. E il ferito peggiora: non è bastato fermargli l’emorragia alla gamba con la tourniquet (laccio emostativo, ndr) o applicargli la benda israeliana, non basta essere intervenuti spingendo la fasciatura all’interno di un’altra ferita, all’addome, né è servito inserirgli la cannula nasale, perché nel frattempo fatica a respirare: gli va praticata la tracheotomia. Come se non bastasse, mostra anche i sintomi di un pneumotorace, quello che in gergo viene chiamato polmone collassato. Gli viene immessa una piccola cannula bucando sotto la seconda costola, ma è gravissimo... Il tutto avviene in una corsa contro il tempo, dove tutti continuano a gridare, in una forte condizione di stress e, ciliegina sulla torta, siamo all’aperto, fa un freddo bestiale e inizia persino a nevicare!
Quella appena descritta è un’esercitazione, l’applicazione di tutto quello che si è imparato in una due giorni intensa ma estremamente utile. È una prova, conclusiva, ma la sensazione, la corsa, le cadute, la tensione, gli interventi di soccorso – anche se i più invasivi sono compiuti su un manichino - sono reali. È quel che accade quando sei in territorio ostile, in pattuglia di ricognizione e all’improvviso si viene colpiti da fuoco nemico. È il vademecum del soldato abilitato a soccorrere in condizione estrema. Sapere quel che devi fare e come attuarlo può salvare vite.
Gestire un ferito under fire in quelle che sono le prime cure sul campo è quel che si impara in un corso di Tactical Combat Casualty Care (TCCC), medicina tattica da combattimento, nel mio caso seguito con Sics Group, una delle tre associazioni in Italia (fino a un anno fa erano cinque) certificate e abilitate a insegnarlo dall’americana NAEMT, (National Association of Emergency Medical Technicians), una garanzia assoluta nel mondo del soccorso combat.
Sics Group è un’agenzia di servizi integrati di sicurezza e investigazione e nasce da un contesto civile. Ha sedi a Sulmona e Verona ma lavora in tutta Italia e all’estero ed ha un settore dedicato alla formazione. Accanto alla teoria, c’è la pratica in un campo di 80mila mq compresa un’area shooting con bersagli fino a 400 metri per i tiri di precisione – dove siamo stati noi - e dove i corsi offerti sono vari e tutti certificati, che sia il primo soccorso, la protezione personale o la medicina tattica. Gli operatori sono quattro, tutti istruttori certificati Naemt: Fabrizio Bucci e Maurizio Pimponi, che si occupano di sicurezza e che hanno esperienze combat, Lorenzo Tiraboschi, che oggi lavora come infermiere in un pronto soccorso d’emergenza a Londra e Daniele Valsecchi, neurochirurgo. A loro si aggiungono vari collaboratori, dai medici ai militari agli infermieri, dai sanitari anche di Croce Rossa o di reparti di rianimazione agli anestesisti. Sono un centro di formazione per sanitari e per “laici” compreso il BLSD (Basic Life Support/Defibrillation, le manovre di supporto di base per le funzioni vitali, anche con l’uso di defibrillatore). Al corso, come osservatori, c’erano anche membri di un'altra associazione Naemt.
Qui anche i militari insegnano, dalle tecniche di tiro all’evacuazione di un ferito, ma vengono pure a seguire i corsi per specializzarsi ulteriormente, in un continuo scambio tra Forze Armate e mondo civile.
I corsi TCCC completi (si organizzano anche quelli più soft per chi non fa parte dell’ambito sanitario) sono riservati prettamente a medici e infermieri, non necessariamente militari, in quanto le tecniche spiegate sono spesso invasive e, almeno in Italia, un “laico” non può praticarle. Ma conoscerle è comunque un valore aggiunto, non si sa mai in che situazione possiamo trovarci, a casa come all’estero, anche per noi professionisti dell’informazione e magari proprio in un contesto combat. Sapere è sempre cultura, che non è mai troppa.
Il TCCC e le sue casistiche sono frutto di osservazioni reali durante le missioni militari, statunitensi in primis, in Iraq come in Afghanistan, sono dati che quindi arrivano da studi di settore specializzati, dove si è visto che più una persona è consapevole e riesce a gestire l’emorragia, maggiore sarà la possibilità di sopravvivenza di chi è stato colpito.
Il corso sul trattamento preospedaliero del paziente ferito in battaglia, due giorni molto intensi, è diviso in due parti, tra teoria e pratica e con difficoltà sempre crescenti.
Nel primo giorno si studiano i presìdi non sanitari, come il tourniquet, la cinghia bloccante che serve a evitare il dissanguamento dagli arti fermando il flusso arterioso, o i bendaggi come l’israeliano. È importante, perché la prima causa di morte, durante un conflitto a fuoco, è l’emorragia. Ovvio quindi che, in primis, si insegni a gestire l’emorragia massiva, cosa che possono fare tutti. Nella seconda parte del corso si spiegano le manovre avanzate, quelle che può praticare solo il personale sanitario, come la cricotiroidotomia (incisione nella gola, tra le cartilagini tiroidea e cricoide che per comodità e un po’ di pigrizia chiamiamo in genere tracheotomia, che però è un’altra cosa), la somministrazione di farmaci, la flebo, l’intraossea.
“Questo, perché il protocollo che abbiamo seguito è quello dell’associazione americana Naemt. La stessa NATO, ha il protocollo Naemt quale organismo principale di riferimento per i corsi di medicina tattica. Il TCCC Naemt è quello maggiormente usato in tutti i teatri difficili. Il controllo delle emorragie massive, che è la prima causa di morte in territorio ostile, è formazione di tutti i militari, per lo meno negli Usa, mentre in Italia ancora deve diffondersi pienamente, anche se, per i nostri militari, questi corsi possono essere messi a matricola, perché previsto da una circolare interna”, spiega Fabrizio Bucci di Sics Group.
Imparare il TCCC, quindi, ha lo scopo di aumentare la sopravvivenza dei militari in un territorio a rischio e, nello specifico, un contesto combact under fire (sotto il fuoco nemico). Ma come spesso accade con le applicazioni militari che poi diventano utili anche per i civili, queste tecniche possono essere riportate in un contesto cittadino e applicate da chiunque, almeno per la parte di manovre non invasive, perché la gestione di un’emorragia massiva, se è vero che riguarda principalmente chi è colpito da armi da fuoco o da taglio, può servire anche, ad esempio, per un soccorritore di ambulanza, un laico che può trovarsi a dover gestire problemi di questo tipo o, anche, in un poligono di tiro dove si usano armi, in ogni situazione dove serva. Fondamentalmente, questo protocollo ha manovre di applicazioni assai vaste.
Un corso TCCC come quello seguito da me, riservato ai sanitari, nasce ed è specifico per il settore militare, perché tende ad aumentare la sopravvivenza della persona colpita in territorio ostile. Chiunque, tra i militari, è così in grado di apportare un primo intervento di soccorso.
Se ci si trova in territorio ostile e si è da soli, è fondamentale avere un tourniquet per fermare l’emorragia e almeno un antibiotico, perché si potrebbe rimanere per parecchio tempo esposti alle intemperie, alla polvere e quant’altro per 6, 7 ore prima che arrivi un soccorso. È chiaro che, come automedicazione, se feriti e da soli non si può fare di più.
Per il resto delle manovre, deve esserci almeno un’altra persona capace di soccorrere con una prima medicazione e con i nervi saldi, nonostante lo stress delle pallottole che ti piovono addosso o poco lontano. Il che vuol dire che il ferito può essere grave ma va stabilizzato con quello che si ha a disposizione e in loco, nonostante ci sia bisogno un’evacuazione urgente, ma in condizione under fire l’evacuazione può avvenire anche dopo 12 ore, con mezzi di fortuna, con quello che può arrivare se arriva.
I tempi tecnici di evacuazione dipendono da tanti fattori. Qui non parliamo di Medevac che presuppone veicoli attrezzati dalla croce rossa che arrivano senza grossi problemi, qui ci si riferisce ad attività che possono anche portare al Medevac per trasportare un ferito in una zona sicura dove si interverrà per garantire la sua sopravvivenza. Il TCCC riguarda tutto quello che si può fare in un ambiente tattico, cioè con vento, scarsa visibilità, mani sporche di fango, gente che ti spara addosso e si deve soccorrere una persona, con manovre semplici oppure avanzate.
Chiaramente, noi “laici” non sanitari e nemmeno militari, al massimo possiamo inserire un tourniquet. Alcune cose si imparano, bisogna poi trovare il limite di applicazione. Per fare un esempio banale, pensiamo a quando, nel primo soccorso, ti dicono che non devi spostare mai una persona ferita o comunque a terra se non sai come farlo e a meno che non ci siano pericoli imminenti per la sua vita. È il caso classico dell’incidente stradale, macchina in mezzo alla strada e il ferito dentro con le gambe spezzate. Non lo sposto perché non ci sono pericoli e aspetto i soccorsi. Nello stesso contesto, se la macchina sta prendendo fuoco, se non intervengo l'interessato muore. La stessa cosa può valere per quel che si insegna nei corsi TCCC: in un contesto civile assolutamente no, devi conoscere la pratica per intervenire e devi essere un sanitario. Poi, se quello che fai, comunque, garantisce sopravvivenza e non fa danno a nessuno, lì non si dovrebbe avere nessun problema dal punto di vista giuridico, o almeno così si spera. Però non esiste un’autorizzazione che consenta di fare quel tipo di attività, sei tu che in quel caso valuti se procedere oppure no. E te ne assumi conseguenze e responsabilità.
I nostri militari hanno i loro protocolli anche in ambito sanitario. Se chi di dovere autorizza la persona che ha seguito i corsi TCCC a svolgere questa tipologia di intervento, se necessario e naturalmente in ambiente ostile, lo può fare.
In genere, nel plotone si hanno un certo numero di persone abilitate a intervenire, il militare che è anche infermiere e quindi è autorizzato a eseguire una “tracheotomia” in caso di necessità.
Le manovre invasive sono previste solo da parte del personale sanitario, a meno che non vi siano disposizioni diverse della Direzione Sanitaria del reparto stesso. Ogni volta che partono per una missione, i nostri militari hanno a disposizione un kit che viene dato loro e dove c’è quello che possono utilizzare. E nei kit sicuramente hanno tourniquet, bendaggio israeliano, cannula nasale, agenti emostatici.
I nostri reparti che operano in territorio ostile hanno tutti competenze, o dovrebbero avere, sulla gestione delle emorragie massive. Viceversa, chi sanitario non è non può farlo, la legge italiana lo vieta. Diversamente dagli Stati Uniti, dove queste manovre vengono insegnate anche a chi non è medico né infermiere e chiunque può soccorrere anche con una manovra invasiva se serve, perché è statisticamente provato che queste azioni danno una sopravvivenza maggiore. Le forze di polizia che lavorano sul territorio applicano già da tempo questo protocollo, tutti loro hanno in macchina tourniquet, bendaggio israeliano, etc. Anche quando sono costretti a sparare ad una persona armata e pericolosa, subito dopo la soccorrono e, nello stesso modo, se serve, si automedicano. Questo perché, come detto prima, la prima causa di morte nei conflitti a fuoco è l’emorragia agli arti inferiori e superiori. Le parti più esposte sono sempre il viso e gli arti inferiori, a causa della dinamica del tiro, mentre le ferite alle braccia in genere sono a causa dell'istinto di coprirsi il volto cercando di parare un fendente.
Quindi, ricapitolando, l’americano può farti una tracheotomia o sistemarti un polmone collassato anche se non è un sanitario, mentre in Italia se salvi una vita rischi l’arresto. Dobbiamo dirlo: su alcune cose gli States, come altri Paesi, sono anni luce davanti a noi!
E non è un caso che i protocolli del TCCC derivino da loro, mentre noi abbiamo dei grossi limiti di legge, è un po’ come per le armi. Anche se, come è ovvio, il discorso vale in alcuni contesti e secondo le normative. Quelle del TCCC sono tutte applicazioni nate da studi e casistiche reali, dal conflitto a fuoco allo scoppio di una mina che, ammesso che si sopravviva, crea un’emorragia agli arti inferiori.
Questo genere di pratiche sono importanti, anche, per avere una maggiore consapevolezza delle proprie doti, per imparare a conoscerle, gestirle, migliorarle, non importa se siamo militari e civili. E possono aiutare professionalmente, perché non è detto che un infermiere sappia eseguire una corretta tracheotomia o che, in una condizione non ospedaliera e sotto particolare stress, sappia mettere correttamente la flebo, perché ovviamente l’ospedale è ben diverso dall’ambiente tattico. È il motivo per cui un corso del genere viene proposto anche ai sanitari non militari e il perché si cerca di creare uno scenario tattico dove hai fastidio per il fatto di portare il particolare kit da soccorso insieme alle armi e ti trovi under fire, mentre devi gestire i feriti e in modo molto diverso dall’ambiente ospedaliero.
Confesso che, dopo il primo senso di inadeguatezza, dopo la prima impressione di essere di troppo tra militari che hanno fior di missioni alle spalle, sanitari militari di esperienza anche in campo survival o volontari di Croce Rossa che operano sul territorio da anni, non ho impiegato molto a entrare in sintonia con il gruppo e con l’argomento.
Poco dopo, grazie agli istruttori del Sics Group come anche ai miei compagni di “avventura”, eravamo una squadra e non vedevo l’ora di applicare sul manichino quanto precedentemente imparato in aula, dalla “crico” al fermare un’emorragia, come anche di controllare il ferito all’aria aperta o soccorsa io stessa, preparata sulla barella per il trasporto aereo e portata via di corsa, consapevole dell’importanza di certe manovre: in questi casi, se sei immobilizzata, “rubi” con gli occhi, con le orecchie, con tutti i sensi, vuoi capire, non vuoi farti sfuggire niente.
A conclusione del corso, tornando a casa, il sapere di aver imparato qualcosa di importante, che stimola riflessioni e ulteriore voglia di approfondire è umanamente prezioso: ci si è incontrati da estranei e ci si è salutati da amici che hanno condiviso tutto, dalle tecniche di medicina combat al cibo, dal freddo allo stress. Ha reso euforico persino il viaggio in macchina verso Roma, sotto la neve che rendeva l’autostrada scivolosa e la visibilità scarsa. Ma quando sei felice perché sai che potresti salvare una vita, dei disagi nemmeno te ne accorgi.
(foto: autore / U.S. Army)