Poter esprimere un’opinione su un marchio così prestigioso come quello dell’Alfa Romeo, non è certo cosa di tutti i giorni e probabilmente servirebbe molto più spazio per dare il giusto riconoscimento alla “storia del biscione”, il marchio che è nato nel 1910 proprio nella città simbolo del biscione, Milano. Conoscere la cronologia della sua storia sportiva fa infatti comprendere il perché di certe scelte anche meccaniche che hanno portato alla creazione dell’Alfetta.
Dover sorvolare su alcuni aspetti importanti mi porterà un po' di sportivo imbarazzo ma essendo, lo ammetto, un alfista, tutto sommato il senso di colpa riuscirò a contenerlo.
Perché il nome Alfetta?
Alfetta era il soprannome con cui ingegneri, collaudatori, meccanici e piloti chiamavano le monoposto da competizione del biscione. “L’Anonima Lombarda Fabbrica Automobili” (il cui acronimo era appunto ALFA) era una società non certo grande e ci si conosceva tutti, per cui i soprannomi cordiali e amichevoli erano una consuetudine tra gli addetti ai lavori che, con grande serietà e impegno, portavano al massimo livello la loro comune passione, i motori. Più o meno una sorta di azienda a conduzione famigliare guidata a partire dal 1918 dall'ingegner Nicola Romeo che, dopo averla acquistata, abbinò il suo nome al marchio ALFA.
L’ALFA ROMEO indossa l’uniforme
Dopo l’esclusione dell’Alfa Matta dal bando ministeriale, vinto dalla Fiat Campagnola, le grandi doti del 4X4 di casa Alfa non passarono inosservate e il prototipo venne costruito in serie sia per uso civile sia per le forze di polizia, allora tutte militari. Nel 1950 l’Alfa Romeo si arruola nell’Arma dei Carabinieri consegnando il suo primo veicolo, un’Alfa Matta 1900 verde militare e con le sigle d’istituto E.I. sulla targa.
Ma facciamo un rapido salto per arrivare a vent’anni dopo… Il punto forte e strategico dell’Alfa Romeo risiedeva al di fuori delle corse, nel produrre veicoli di serie derivati da quelli da corsa, e il mitico motore da 1962 cc bialbero con 130 cavalli montato sull’Alfetta ne era una prestigiosa applicazione. Negli anni ’70 infatti l’Alfetta prende servizio nell’Arma dei Carabinieri divenendo un po' il veicolo associativo della Benemerita e dei Corpi di Polizia; le sue prestazioni e qualità sono di gran lunga superiori alla concorrenza estera. In Francia, ad esempio, le autovetture erano progettate più per rispondere a schemi di funzionalità e comodità piuttosto che di sportività, e solo alcuni modelli soprattutto della Renault e Peugeot rispondevano a prestazioni interessanti. In realtà questa era un po' la filosofia delle case automobilistiche italiane, che privilegiavano più l’assetto, la precisione dello sterzo, il rapporto di trasmissione del cambio e chiaramente i cavalli del motore a parità di cilindrata.
L’Alfa al cinema Forse qualcuno ricorderà i film polizieschi anni ’70, con Franco Nero o Maurizio Merli dove al di là della drammaticità delle pellicole che rispecchiavano la malavita di quel periodo, l'interesse dello spettatore in un certo senso era focalizzato più sulle Giulia Super e le Alfette impegnate in spettacolari inseguimenti che sulla trama.
L’ammiraglia Alfetta nella sua innovazione rappresentava uno status symbol negli anni ’70, era infatti riservata alla borghesia del periodo (nel ’72 costava più di due milioni di lire) ma era anche l’auto preferita dai rapinatori.
A molti forse verrà in mente il maresciallo Armando Spatafora e la sua Ferrari 250 Gte.
Differenze tra Alfetta, Giulia e 1750
Giulia, 1750 e 2000, avevano lo stesso brillante motore dell’Alfetta a canne estraibili, ma il cambio era posizionato a campana sul motore, e per avere un bilanciamento ottimale venivano abbassate posteriormente, dove vi era un obsoleto ponte rigido, e questo consentiva una guidabilità al limite anche se i pendolamenti della coda erano frequenti ma controllabili, anzi molto utilizzati per gli inserimenti in curve strette. La manovra del pendolo per chi la conosce. Giulia e 1750 scodavano e allargavano parecchio le traiettorie offrendo, in questo contesto, tempo al conduttore per compensare con volante e acceleratore. L’alfetta rappresentava una vera e coraggiosa innovazione del concetto di berlina sportiva, rispetto alla precedente produzione.
La guidabilità operativa; seppur come la Giulia e la 1750, l’Alfetta risultava una vettura all’occorrenza docile e adatta alla famiglia, tuttavia manca ai più anziani operatori delle forze dell’ordine come “compagna di lavoro”. La sensazione di solidità della struttura e autonomia rendevano vincente l’unione tra il biscione e gli operatori di polizia.
La tenuta di strada era invidiabile e il progetto 116 (l’Alfetta) era completamente innovativo rispetto alla precedente Giulia di cui condivideva solo la base del motore progettato nel ’54. La frenata pronta (con freni a disco asciutti) e la tendenza al sovrasterzo nelle scalate o, contrariamente, nelle accelerate più brucianti era la norma per questo genere di auto. Tutto però era controllabile e prevedibile (soprattutto sull’asciutto) a tal punto che spesso si cercava apposta di portare l’auto a questi estremi per effettuare manovre successive. I suoi difetti erano imputabili alla carburazione che necessitava di un buon orecchio per ottimizzarla e ai sincronizzatori del cambio che lo rendevano lento e con impuntamenti; tuttavia questo veniva compensato oltre che dalla doppietta da preventive accelerate maggiori nelle cambiate per non perdere lo spunto.
L’Alfetta era prodotta nelle versioni 1.8 cc con 120 cv e 2.0 con 130 cv ma vi era anche la 1.6 da 109 cv che in termini prestazionali se la cavava comunque molto bene. C’era anche in versione diesel 2.0 (1995 cc) e il 2.4 Sofim, lo stesso propulsore montato successivamente sul VM ’90. I motori inizialmente erano con due carburatori a doppio corpo (uno per cilindro) poi successivamente fu inserita l’iniezione elettronica per ottimizzare prestazioni e consumi. La base del successo dell’Alfetta arriva dalla formula uno, con l’adozione del “ponte De Dion” per il ponte posteriore. Una scelta che ripartisce le masse al 50% anteriormente e posteriormente. La soluzione le conferiva un assetto neutro avendo cambio e differenziale istallati posteriormente e garantendo un “zavorra a terra”. L’Alfa risultava infatti attaccata all’asfalto in tutte le condizioni a patto però che gli pneumatici fossero Pirelli, Good Year o Michelin, quelli di serie insomma. Io sostengo che questo genere di auto si guidano più con l’acceleratore rispetto al volante ma in effetti è un’affermazione “sottile” che si comprende dopo tanta strada.
La formazione di guida militare
In virtù anche del periodo storico – gli anni di piombo – e del minor traffico, gli inseguimenti erano un’opzione operativa utilizzata di buon grado dal pronto intervento e i militari erano particolarmente formati per ogni eventualità potesse capitare in quegli anni; tra queste, la formazione alla “guida veloce” era un aspetto indispensabile.
Spesso affiancati dai collaudatori Alfa Romeo in trasferta nei centri di formazione, (ma anche presso l’ISAM) gli istruttori militari di guida operativa erano fondamentalmente dei professionisti e appassionati che cercavano di instillare anche nei loro allievi queste qualità. I corsi erano molto duri e soprattutto selettivi e miravano a valutare in primo luogo la predisposizione alla guida e poi le qualità tecniche personali. Forse i più avvantaggiati, in questi corsi, erano gli autisti di veicoli pesanti con comprovata esperienza, i quali sapevano gestire meglio lo stress essendo anche più allenati alla percezione degli spazi e rimanendo rapidi pronti e precisi nei movimenti di guida.
I corsi prevedevano slalom lento e veloce intorno agli ostacoli, sia a marcia avanti sia a marcia indietro, scarto improvviso di più ostacoli su asfalto asciutto e bagnato, inversione dinamica di marcia in rettilineo, ma anche inserimento improvviso in una strada perpendicolare, l’alta velocità su di un circuito con ostacoli e le tecniche di speronamento e discesa operativa dal veicolo. Un brigadiere anni fa, mi raccontava che oltre allo studio delle traiettorie era previsto un esercizio di scalata e frenata con doppietta e tacco e punta, da effettuare entro un certo tempo e senza creare bloccaggi di coppia sulle ruote motrici.
“Il doppio disinnesto”, la doppietta, era la regola sull'Alfa, una manovra che alcuni credono si effettui solamente con un’accelerata mentre si scala, era un po' simpaticamente il segno distintivo e sportivo degli alfisti puro sangue. In realtà la manovra prevede il disinnesto della frizione con cambio in folle e un’accelerata pari al numero di giri che a percezione ed orecchio si avrebbe con il rapporto inferiore innestato. Ma la doppietta veniva effettuata anche nel salire di marcia ma in questo caso senza colpo di gas. Al superamento del duro corso, i militari potevano fregiarsi del distintivo di specialità.
I “draghi”
L’Alfa era seguita da un’enorme numero di appassionati in Italia e nel mondo e a Milano c’erano i cosiddetti “draghi” un soprannome ritagliato in realtà per il pilota Lancia Sandro Munari, i quali conoscevano tutto dell’Alfa e delle Alfette; dalle loro confidenze tra amici spesso si comprendeva che era possibile scambiare cambio e motore tra le versioni 1.8 e 2.0 per ottenere ancora più scatto e velocità, oltre che rivedere l’incrocio valvole, anticipo e carburazione. Il volante diretto si sterzava con il “passa mano” considerato il diametro, e la posizione di guida era abbastanza distesa rispetto ai moderni canoni, una guida all’inglese insomma.
I brividi sulla pelle sentendo salire di giri l’Alfetta facevano parte della guida, soprattutto quando il posteriore si abbassava con maestosità verso l’asfalto, puntando i suoi 4 fari anteriori dritti verso l’orizzonte.
Ma c’è un po' di Alfetta anche nella modenese Lamborghini oltre che a soluzioni elettroniche Magneti Marelli e Bosch, soprattutto sul modello “Countach”, è curioso osservare che i fanali posteriori dell’Alfetta sono gli stessi del modello Countach. In quel periodo la politica automobilistica era differente da oggi; infatti ogni auto aveva una sua scocca mentre ora, per ottimizzazione industriale, la scocca è condivisa tra più modelli. Quello che invece si scambiava allora, erano piuttosto gli allestimenti e i componenti. La Fiat Campagnola ad esempio, montava le maniglie delle porte della Fiat 127/128 e anche lo stesso volante. Gli inizi delle “scocche unificate” ha visto nei primi del ’90, Saab 900, Lancia Thema e Croma, montare le stesse portiere anteriori.
Dove faceva servizio l’Alfetta Era un'auto utilizzata per il pronto intervento ai cittadini, i quali appena percepivano il suo potente motore si sentivano già più sicuri. Verdi sino al 1975 e poi azzurro/bianco per la PS, blu per i Carabinieri e GdF, un faro d’ispezione e uno o due lampeggianti rotanti sul tetto, questi oltre al suo “suono Alfa” inconfondibile erano i segni distintivi delle nostre forze dell’ordine che sfrecciavano durante gli interventi. Ma l’impiego, vista la versatilità di questa berlina, era anche per i vertici dello Stato. Corpi d’armata e ammiragliati avevano delle Alfette e magari un carabiniere come conduttore. Ne furono prodotte anche versioni blindate (livello b4) per le esigenze ministeriali e di queste non oso immaginare i consumi…
A portare il cambio all’Alfetta “istituzionale” è giunta un po' in ritardo, l’Alfa 90 che pur essendo una buona macchina non ha avuto un gran successo, anche perché, quasi contemporaneamente l’Alfa è uscita con l’ultima vera bomba che ha messo in ombra la nuova “90”, l’Alfa 75, un'auto con tutti i pregi della storia sportiva Alfa Romeo. Ma gli anni d’oro dell’Alfa Romeo Alfetta e anche della Giulia non tardano ad arrivare. Apprezzatissima anche dai tedeschi, l’Alfa sbarca in America dove i suoi fans, oltreoceano, rimangono entusiasmati per le sue doti sportive e prestazioni di gran lunga superiori al loro canone di sportività, la Corvette C3 da 5000 cc. Le versioni più ricercate erano la serie GTV 2.5, la Giulia GT, lo Spider e appunto l’Alfetta “America”. Catalizzatore a 3 vie, cristalli più spessi, luci d’ingombro, meccanismo di blocco cambio in posizione di retromarcia e paraurti maggiorati contraddistinguevano la serie USA da quella europea. Il climatizzatore era a pistone, come per i bus, mosso dal motore mediante una cinghia e non un cilindro con rotore ellittico interno come avviene per le moderne auto. La versione automatica ZF 3 marce dell’Alfetta 2000 non fu un gran successo qui da noi e in America, lo sportivo che poteva permetterselo optava per il manuale classico.
Curiosità Alfiste…
Le serie prodotte dopo l’80 erano più allungate di 10 centimetri sulla parte anteriore, per avere più spazio nel vano motore ma soprattutto per migliorare il CX aereodinamico.
Fidel Castro era un grande appassionato di Alfa e ne possedeva qualcuna, Giulia Gt, Giulia e 1750.
La pedaliera dell’Alfetta fu la prima con i leveraggi provenienti dall’alto, sino a prima il supporto, premendo il pedale, scompariva sotto la scocca.
Alcune dichiarazioni in rete, di noti ingegneri Alfa, sostengono che la BMW abbia avuto un “ruolo” non sottovalutabile nel destino dell’Alfa e che certe scelte poco chiare nella produzione del biscione, non erano condivise dallo staff ingegneristico milanese.
(foto: web)