Ieri la versione on-line del quotidiano britannico Daily Mail ha pubblicato un articolo sorprendente intitolato “SAS soldier decapitates ISIS thug with SPADE during fierce six-hour gun battle after they were ambushed in Afghanistan” nel quale si narra come un operatore dello Special Air Service di Sua Maestà abbia decapitato, sciabola in mano, un talebano dopo un combattimento all’ultimo sangue. In primo luogo abbiamo riscontrato una certa confusione di termini tra titolo – il quale riporta che il malcapitato afghano era dell’ISIS – e il testo, dove i nemici diventano prima "talebani" e poi "insorgenti". Al di là di queste inesattezze, i sostenitori del SAS hanno accolto la notizia con giubilo, inneggiando ad azioni eroiche di altri tempi, quando i nemici da abbattere erano i mori del feroce Saladino. Inutile dire che molti – non militari – subiscono ancora il fascino dello scontro oltre la morte, simile ai 300 di Leonida o alla “Thin Red Line” scozzese nella battaglia di Alma in Crimea, senza sapere che per resistere ad una carica di cavalleria, oltre ad una salda formazione in quadrato e lunghe baionette, serviva anche una massiccia dose di gin.
Il pezzo redatto dal giornalista inglese enfatizza la decisione dei membri del SAS di morire piuttosto di essere catturati, torturati e poi decapitati. Imbattersi in un simile frangente implicherebbe un grave errore da parte di soldati addestrati, giorno e notte, al fine di scongiurare tale scenario e in ogni caso, l’opzione “combattiamo fino all’ultimo respiro” apparirebbe quanto mai discutibile.
Lo Special Air Service, ma anche il nostro “Col Moschin” o GOI, hanno una preparazione specifica che insegna loro come scongiurare pericolosi cul-de-sac. Paradossalmente è più facile che si trovi soverchiato dal nemico un reparto di fanteria regolare, che non un piccolo nucleo di forze speciali.
Se messi con le “spalle al muro” gli incursori conoscono vari metodi per non farsi intrappolare, sanno come disimpegnarsi rapidamente e predispongono vie di fuga ben prima di incappare nel nemico. Pensare, poi, che un operatore brandisca una scimitarra e decapiti un avversario, pare quanto mai inverosimile, nonostante gli scontri a fuoco siano sicuramente un’azione brutale e violenta.
Il SAS, ma anche le unità speciali di tutto il mondo, continuano ad essere oggetto di fraintendimento o esagerazioni circa quello che svolgono realmente in azione. Questo nasce da una facile ed equivoca mitizzazione di fatti ed avvenimenti che non possono – per ovvie ragioni – essere di pubblico dominio.
Lo stesso problema coinvolge anche il carattere degli uomini che compongono le unità scelte; quelli del SAS poi, forse tra i più preparati al mondo, riempiono le pagine dei Tabloid e dei vari blog di appassionati che inneggiano ai loro eroi come se fossero novelli Iron Man.
Il lavoro di un operatore è una cosa terribilmente seria, lontana chilometri da esaltazioni o duelli all’ultimo sangue con clave improvvisate. Nelle forze speciali si insegna soprattutto a portare a casa la pelle ad ogni costo e se si finisse catturati la regola è la medesima: sopravvivere.
Lo spirito combattivo espresso da un team del SAS o della Delta Force è il frutto di anni di preparazione che mira ad canalizzare la violenza su binari controllabili e gestibili da chi – per mestiere – è chiamato ad impiegarla con frequenza. Certo, non stiamo parlando di uomini infallibili e sono tante le operazioni speciali trasformatesi in disgrazia per errori e imprevisti più o meno evitabili. La guerra è comunque una “brutta bestia” e la storia insegna che da essa emerge il peggio, ma anche il meglio di un uomo.
Questo discorso vale ancora oggi, ciò nondimeno ci piace pensare che i ragazzi inglesi, italiani o americani che vengono inviati a migliaia di chilometri da casa loro per eliminare i veri “taglia teste” non possano cadere nella stessa inumana ferocia.