Il 17 marzo 1948, Gran Bretagna, Francia, Olanda, Lussemburgo e Belgio, firmarono un trattato multilaterale a Bruxelles finalizzato a contrastare la possibilità di una rinascita aggressiva della Germania nonché qualsiasi situazione che potesse rappresentare una minaccia contro la pace.
Tuttavia il Trattato di Bruxelles aveva dei chiari limiti geografici, anche se appariva già evidente che si trattava solo di un primo passo di un processo più esteso. Infatti a dare un afflato più esteso contribuirono gli esponenti del Movimento europeo – una consociazione di organizzazioni europeistiche – che tennero, nel maggio 1948 all’Aja, un congresso europeo.
I lavori del congresso ebbero la conseguenza di assimilare il Trattato di Bruxelles e i successivi negoziati per l’Alleanza Atlantica con il Movimento europeistico, portando alla nascita del Consiglio d’Europa.
Già il 17 marzo il Presidente Truman aveva assicurato ai cinque Paesi del Trattato che l’appoggio statunitense non sarebbe mancato. Si trattava di una promessa non priva di ricadute politiche, in quanto negli Stati Uniti prevaleva la convinzione che il Piano Marshall fosse più che sufficiente a favorire la rinascita dell’Europa occidentale e che, conseguentemente, gli europei avrebbero potuto bloccare da soli l’espansionismo sovietico.
Era anche diffusa l’idea, specialmente tra la classe dirigente politico-militare americana, che Stalin, una volta assimilata la Cecoslovacchia nella sfera d’influenza di Mosca (febbraio 1948), non pianificasse ulteriori aggressioni nei confronti del resto dell’Europa. Inoltre, la vittoria elettorale in Italia dei partiti filoamericani (18 aprile 1948) rassicurava Washington circa le sorti del Paese più esposto nei confronti dell’ingerenza della Jugoslavia (allora facente parte del Cominform).
Questo insieme di analisi rendeva difficile per l’establishment americano comprendere le ragioni delle paure europee e le insistenze degli appelli perché Washington dessero appoggio politico-militare, oltre che aiuti economici.
Soprattutto gli inglesi insistevano per una decisione rapida, tale insistenza portò, nel marzo-aprile 1948, a una serie di incontri con i vertici militari statunitensi e canadesi per analizzare la strategia sovietica e i mezzi per contrastarla.
Perché l’Amministrazione Truman potesse assumere l’iniziativa in Europa, necessitava dell’appoggio del Senato. Per fortuna il Presidente americano (nella foto, a sx) poteva contare sul senatore Vandenberg (nella foto, a dx), capo del gruppo repubblicano, allora maggioritario in senato, ma soprattutto esponente dell’ala internazionalista del partito stesso.
Il senatore era fermamente convinto che gli Stati Uniti dovessero diventare una superpotenza globale e si fece promotore di una risoluzione che concedeva al Presidente la potestà di stipulare, mediante procedura costituzionale, accordi collettivi concernenti la sicurezza nazionale degli stati Uniti.
Ad aiutare tale linea politica, contribuì non poco il blocco sovietico di Berlino, cominciato l’11 giugno 1948, in seguito alla ritorsione verso i progetti occidentali di cambio del marco.
Il 6 luglio 1948 ebbero inizio i negoziati - durati fino al marzo 1949, per definire la portata, l’estensione e gli impegni che il Patto Atlantico avrebbe assunto - terminati il 4 aprile 1949 con la firma, a Washington, del Trattato a cui aderirono Canada, Gran Bretagna, Belgio, Francia, Danimarca, Olanda, Lussemburgo, Islanda, Italia, Norvegia, Portogallo e appunto Stati Uniti.
Gli Stati Uniti diventavano garanti dello status quo europeo, comunque esso fosse minacciato. Si veniva a creare, quindi, un vincolo politico permanente - modificabile solo con la volontà delle parti in causa – fra l’Europa occidentale e gli Stati Uniti d’America.
È altresì evidente che un aspetto cruciale, per la realizzazione del Trattato, fu la definizione dei limiti geografici ai quali esso sarebbe stato esteso. Il concetto di area dell’Atlantico settentrionale poteva essere declinato in diversi modi.
Proprio un punto nodale era rappresentato dall’Italia (non certo per la presunta esiguità del contributo che le Forze Armate italiane avrebbero potuto dare), la cui posizione geografica appariva fondamentale per le politiche americane in Europa, ma che ovviamente la poneva fuori dall’Atlantico settentrionale. Inoltre l’Italia era un paese ex nemico, appena tornato nell’ambito della rispettabilità internazionale e una sua ammissione avrebbe posto il problema, militarmente più rilevante, della Grecia e della Turchia.
La situazione si risolse grazie alle insistenze, meditate e di notevole significato politico, della Francia. Senza l’Italia, il Trattato sarebbe stato letteralmente un trattato marittimo comprendente solo stati rivieraschi dell’Atlantico settentrionale. Una alleanza così formulata avrebbe visto in posizione geograficamente rilevante il Regno Unito e avrebbe privato Parigi di quel retroterra politico che le era necessario per controbilanciare le conseguenze politiche di tale centralità.
Inoltre, l’esclusione dell’Italia perché paese mediterraneo avrebbe provocato per definizione l’esclusione dall’area garantita anche dei territori africani della Francia, una parte dei quali (i dipartimenti algerini), secondo il dettato costituzionale francese, erano parte integrante del territorio nazionale della Francia.
All’inizio del mese di marzo del 1949 il Governo italiano fu invitato ad aderire all’Alleanza, il testo del quale esso non aveva contribuito a redigere.
Tuttavia, se il senso della creazione dell’Alleanza fosse stato solo quello di arginare l’espansionismo sovietico, questa non sarebbe certamente sopravvissuta al 1989, quando l’Impero sovietico si dissolse. Credo, invece, sia necessario riflettere sul significato politico che essa ebbe negli equilibri del tempo, per comprendere la partecipazione degli Stati Uniti a un impegno così vasto e, praticamente, senza limiti temporali.
Scrive il Presidente Truman nelle sue memorie: un sistema di sicurezza atlantico era probabilmente il solo mezzo grazie al quale si poteva indurre i francesi ad accettare la ricostruzione della Germania. Tale sistema avrebbe dato a tutte le nazioni del mondo libero quel senso di fiducia di cui esse avevano bisogno per costruire la pace e la prosperità nel mondo.
Sin dalla nascita del Trattato, tuttavia, rimase aperta la fondamentale questione dell’impegno che i contraenti (in special modo gli Stati Uniti) avrebbero assunto mediante l’alleanza, poiché da essa sarebbe derivata la natura delle azioni che ciascuno dei firmatari avrebbe dovuto intraprendere qualora si fosse verificato il casus foederis, ovvero l’evento che avrebbe provocato l’entrata in funzione delle garanzie negoziate. A tale proposito credo sia doveroso citare l’Art. 5 del Trattato:
"le parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse in Europa o nell’America settentrionale sarà considerato quale attacco diretto contro tutte le parti, e di conseguenza convengono che se tale attacco dovesse verificarsi ognuna di esse, nell’esercizio del diritto di legittima difesa individuale o collettiva riconosciuto dall’Art. 51 della Carta delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti così attaccate intraprendendo immediatamente, in modo individuale o di concerto con le altri parti così attaccate, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’impiego delle forze armate, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella zona dell’Atlantico settentrionale."
Quindi il focus politico dell’Alleanza era rappresentato da una garanzia difensiva contro l’attacco di terzi. L’URSS non veniva citata, anche se, in quel momento storico, era l’unico possibile aggressore. Il casus foederis era chiaro e indicato secondo le formule della diplomazia in uso: aggressione e reazione. Del tutto peculiari e non trasparenti erano gli impegni che gli alleati assumevano a favore dello stato aggredito.
La criticità dell’articolo consisteva proprio nella mancata precisione con la quale le contromisure venivano indicate. Infatti la natura delle azioni da intraprendere era lasciata ai singoli membri dell’Alleanza, che avrebbero intrapreso l’azione che (avessero giudicato) necessaria, ivi compreso l’uso della forza.
Veniva così introdotta una duplice distinzione: la reazione non sarebbe stata di necessità militare e la natura di essa veniva rimessa al giudizio delle parti interessate.
La ragione di tale ambiguità andava individuata nella facoltà esclusiva del Senato americano di dichiarare lo stato di guerra, a prescindere dall’Amministrazione in carica. Il giudizio rimaneva a totale discrezione della maggioranza dei senatori. Perciò ogni dubbio, da parte dagli alleati europei, circa la natura dell’azione che gli Stati Uniti avrebbero intrapreso, in caso di aggressione a uno o più paesi facenti parte dell’Alleanza, era del tutto legittimo.
Da quando è in carica l’Amministrazione Trump si parla con insistenza di un disimpegno delle forze americane dall’Europa, con conseguente indebolimento dell’Alleanza. La realtà è completamente diversa, infatti, negli ultimi due anni, il Pentagono ha aumentato, nel Vecchio Continente, lo stanziamento di truppe (in special modo in Germania e nei Paesi dell’est), contribuendo non poco al senso di accerchiamento che da secoli attanaglia la Russia.
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