Durante l’inverno tra il 1944 e 1945 il Reich tedesco, oramai allo stremo delle forze, ricevette l’aiuto di due preziosi alleati: il maltempo e Otto Skorzeny. Il primo intervento fu del tutto casuale: nessuno all’OKW sperava in un tempo simile che per settimane paralizzò l’aviazione di Eisenhower. Il secondo, certamente meno fortuito, coinvolgeva Otto Skorzeny uno degli ufficiali delle SS più noti in tutto il Reich, un uomo vicino ad Adolf Hitler il quale, proprio a lui, confidò la missione di liberare il suo amico e alleato Mussolini, rinchiuso per ordine del Re a Campo Imperatore sul Gran Sasso. La liberazione del Duce fruttò fama e gloria a Skorzeny anche se gran parte del merito andava ai paracadutisti del Lehr Bataillon di Harald-Otto Mors.
Nonostante lo zelo di Skorzeny e la guerra fanatica combattuta dalle Waffen-SS, la Germania era sull’orlo del precipizio, sebbene in molti confidassero ancora nelle tanto decantate wunderwaffen, le “armi segrete” promesse dal Führer. Per l’impiego di questi nuovi dispositivi occorreva però del tempo e visto che ad oriente l’Armata Rossa era pressoché inarrestabile, era necessario assestare un duro colpo almeno alle truppe anglo-americane. Dopo lo sbarco in Normandia, le armate di Eisenhower iniziarono la loro lenta e cauta marcia verso il territorio tedesco, dimostrando tutta la loro fragilità. Gli anglo americani potevano vincere sul numero, ma in quanto a determinazione e approccio tattico, l’esercito tedesco aveva ancora qualcosa da insegnare. La lezione appresa da Monty e il suo entourage fu molto dura: bastava chiedere ai paracadutisti britannici del colonnello Frost che ad Arnhem presero una batosta dalla quale non fu semplice risollevarsi. La linea del fronte progrediva pigramente e l’unico generale in grado di “suonarle” ai tedeschi, il texano George Patton, veniva tenuto prudentemente in disparte. Come afferma lo storico britannico Max Hastings, americani e inglesi erano tutt’altro che concordi sulla condotta della guerra e se non fosse stato per la grande capacità di Ike, i risultati sarebbero stati peggiori.
Per la controffensiva occidentale i tedeschi scelsero il settore delle Ardenne. L’operazione, inizialmente battezzata Wacht am Rhein (Guardia sul Reno) doveva spaccare in due le armate alleate di Bradley e Montgomery, puntando rapidamente verso la Mosa e poi su Anversa, le cui banchine erano indispensabili per le linee di rifornimento alleate. La cattura dei ponti che attraversavano il corso della Mosa era il nodo più importante e per questo Hitler decise di affidare l’operazione ad un’unità speciale, guidata proprio da Otto Skorzeny. In questa circostanza nacque la Panzerbrigade 150 che aveva come obiettivo quello di aprire la strada alla VI Armata Panzer SS di Sepp Dietrich, ma soprattutto assicurarsi il controllo dei ponti tra le località di Lüttich e Namur. Il gruppo principale da combattimento sarebbe stato preceduto da piccoli nuclei di commandos in uniforme americana, inviati oltre le linee nemiche con compiti di sabotaggio. Una volta raggiunti i vari passaggi, i tedeschi avrebbero smesso le insegne alleate per combattere con le loro uniformi nazionali.
Il gruppo scelto fu riunito in gran segreto anche perché occorreva smuovere – senza troppi clamori – un gran numero di materiale non propriamente tedesco. Le esose richieste di Skorzeny furono disattese a causa di una preoccupante penuria di risorse, ciò nondimeno furono recuperati alcuni esemplari di carri Sherman, pochi semicingolati e numerose uniformi prese dai prigionieri di guerra. Alcuni Panther tedeschi subirono modifiche con simulacri strutturali per assomigliare ai tank americani, mentre sulla selezione degli uomini fu posta una più viva attenzione. I militari prescelti per infiltrarsi oltre le linee americane furono selezionati direttamente da Otto Skorzeny il quale – come ricorda nelle sue memorie – interrogò circa 600 volontari tra cui solo 10 erano in grado di sostenere una conversazione con un inglese fluente, alcuni lo parlavano ma con uno spiccato accento tedesco mentre altri o lo capivano soltanto o sapevano dire solamente si o no. Il margine di errore era dunque molto alto e come ammise lo stesso ufficiale delle SS, gli americani non erano stupidi e non si sarebbero fatti ingannare facilmente. Il gruppo speciale – denominato Einheit Stielau – fu riunito a Friedenthal per addestrarsi in completo isolamento, obbligato a mantenere il più assoluto riserbo su quelli che erano gli scopi della missione.
L’offensiva della Panzerbrigade 150 iniziò il 16 dicembre seguendo tre direttrici di attacco contrassegnate con le lettere X Y e Z1. Il repentino sfondamento delle linee americane fu però solo un’iniziale vittoria di Pirro: la rottura del fronte delle Ardenne, così come l’eroica resistenza della 101st a Bastogne, è materia largamente nota, rintracciabile in opere molto dettagliate ivi compreso l’ultimo capolavoro di Antony Beevor sulla Battle of the Bulge. Tra le varie vicende belliche, quella che più affascina, ed è avvolta ancora oggi da alcuni interrogativi, riguarda proprio l’incursione dalle unità tedesche verso i ponti sulla Mosa. Come ricorda Hastings, gli americani ebbero un brutto ricordo di quell’esperienza che causò un’imbarazzante panico tra i soldati e negli uffici del comando del generale Omar Bradley. Alla sorpresa iniziale si aggiunse poi lo spauracchio che i commandos tedeschi potessero rapire nientemeno che Ike Eisenhower. Effettivamente l’infiltrazione degli uomini di Skorzeny è da annoverarsi tra le operazioni speciali più ardite della seconda guerra mondiale, ancorché il risultato finale fosse stato un completo fallimento.
Le prime unità della Einheit Steilau penetrarono verso la linea del fronte a bordo di jeep Willis il giorno stesso in cui la forza principale sfondò le esili difese americane. La trasposizione sul grande schermo della Battle of the Bulge – ricordiamo soprattutto all’intramontabile Bastogne del 1949 e la Battaglia dei giganti del 1965 – offre un esempio veritiero su quanto accadde, mostrando unità americane sbandate e raggirate dai tedeschi travestiti i quali fecero perdere la bussola a intere colonne motorizzate. In alcuni casi i tedeschi furono smascherati quasi subito, soprattutto a causa della loro scarsa conoscenza degli usi militari americani. Il 18 dicembre, ad esempio, nei pressi di Poteau, un gruppo di uomini sbucò dalla fitta nebbia vicino ad un pezzo d’artiglieria abbandonato del 18th Cavalry Reconnaisance Squadron. Il sergente John S. Meyers prese con se cinque uomini di pattuglia per identificare chi fossero e non appena si avvicinò al gruppo chiese a quale reparto appartenessero. I finti americani risposero che erano della “E Company” del medesimo reggimento, peccato che in cavalleria usassero il termine “Troop” per identificarsi e non compagnia. Ne nacque un conflitto a fuoco e l’intero commando tedesco venne ucciso. Altri americani, specialmente gli uomini della Military Police, usarono metodi molto più sottili per accertare l’identità dei sospetti, appellandosi alla conoscenza nel campo del baseball, piuttosto che della geografia americana.
Diciotto uomini dell’unità speciale furono catturati prima di raggiungere l’obiettivo; la sentenza fu emessa senza esitazioni: condanna a morte per fucilazione poiché giudicati come spie. Il fallimento di Skorzeny fu susseguente alla fine della spinta tedesca nell’intero settore, vanificata dalla comparsa del sole e dal rinvigorito supporto aereo alleato. Nonostante la débâcle generale, alcuni militari della Einheit arrivarono ai punti prefissati dal piano generale: una squadra si stabilì sul ponte di Huy riuscendo a deviare una colonna corazzata americana lontana dalla linea del fronte, mentre altre, come abbiamo visto, riuscirono ugualmente a portare panico e scompiglio tra gli americani. I panzer tedeschi erano bloccati, rimasti a secco di carburante, mentre il celebre Kampfgruppe di Jochen Pieper arrestò la sua marcia braccato dal cielo dagli attacchi aerei americani. In una riunione con il comandante della VI SS-Panzer Armee, Sepp Dietrich, tenutasi intorno al 19-20 dicembre, Skorzeny ammise di non essere più in grado di far avanzare il suo Kampfgruppe suggerendo al comandante di impiegare i suoi uomini come truppe convenzionali2. Nel frattempo la fucilazione dei tedeschi della Einheit Steilau, creò uno spiacevole precedente: alcuni prigionieri di guerra, appartenenti ad unità regolari della Wermacht che nemmeno sapevano delle unità infiltrate, furono passati per le armi soltanto perché in possesso di cappotti e scarponi imbottiti dell’esercito americano usati semplicemente per ripararsi dal freddo3.
Sotto processo: il caso Skorzeny
Prima di intraprendere la missione oltre le linee americane, l’SS-Obersturmbannführer Otto Skorzeny ebbe un colloquio con il tenente generale August Winter capo Ufficio Operazioni dell’OKW. L’ufficiale delle SS fu informato sulle implicazioni che un simile atto avrebbe avuto in caso di eventuale cattura. L’articolo 23 della Convenzione dell’Aja, sottoscritta nel 1907, era espressamente dedicato a questo tema vietando a qualsiasi militare di “usare indebitamente la bandiera parlamentare, la bandiera nazionale o le insegne militari o l’uniforme del nemico, nonché i segni distintivi della Convenzione di Ginevra”. Tuttavia, l’articolo successivo, il 24, recitava: “sono considerati come leciti gli stratagemmi e l’uso dei mezzi necessari per procurarsi informazioni sul nemico e sul terreno”. Il generale Winter interpretò correttamente la legge internazionale aggiungendo che: “l’inganno tra combattenti non è proibito in linea di principio. L’infiltrazione tra le linee nemiche con le uniformi usate dal nemico è ammissibile fintanto che il combattimento non abbia inizio: nel momento in cui si entra in contatto con l’avversario solo allora le unità infiltrate devono indossare le loro uniformi, rivelando la loro nazionalità”.
Al termine della guerra le cose andarono diversamente e l’intera operazione Greif finì sotto processo dando vita ad uno dei casi giudiziari più interessanti dopo i più famosi processi di Norimberga e Tokyo4. Otto Skorzeny, ma anche il generale Sepp Dietrich, Jochem Peiper e molti altri ufficiali delle Waffen SS furono tradotti come Prigionieri di Guerra nel campo di concentramento di Dachau in attesa di essere giudicati per vari reati commessi durante l’avanzata alleata ad occidente, ivi compreso il terribile e controverso massacro di Malmedy. Ovviamente l’uso di un ex campo di concentramento non fu casuale: all’interno del lager – come ricorda lo stesso Skorzeny – gli americani costruirono un nuovo bunker con diverse celle molto strette capaci di ospitare appena due prigionieri.
Dal 18 agosto al 9 settembre 1947 l’ufficiale tedesco più temuto dagli alleati, finì alla sbarra per i seguenti capi di imputazione: uso improprio dell’uniforme nemica al fine di partecipare ai combattimenti e sparare in modo infido ai soldati alleati e appropriazione indebita di materiale appartenente ai prigionieri di guerra americani e della Croce Rossa a loro destinati. I fatti presentati dal procuratore americano erano però suffragati soltanto da due prove e non del tutto accertate: la prima riguardava la testimonianza resa dal Tenente O’Neil il quale, poco dopo l’inizio dell’offensiva, sostenne un conflitto a fuoco con un manipolo tedesco in uniforme americana. Alcuni di essi furono catturati e dall’interrogatorio emerse che appartenevano alla 1a SS-Panzer Division “Leibstandarte Adolf Hitler”. Nel secondo caso l’accusa si affidava alle dichiarazioni spontanee di un soldato tedesco il quale raccontò che durante l’attacco su Malmedy lui e i suoi uomini – in uniforme statunitense – spararono ad un sergente americano che tentava di smascherarli5.
L’elaborazione di una sentenza coerente con la legge internazionale non fu semplice, tantomeno scontata, anche perché i difensori di Skorzeny avevano diverse carte a suo favore. L’ufficiale delle SS non poteva essere trattato alla stregua di un criminale di guerra o un volgare assassino di gente indifesa. Le argomentazioni presentate dalla difesa vantavano il sostegno di alcuni prestigiosi testi di diritto tra cui il noto volume International Law: A Treatise scritto dal giurista tedesco Lassa Francis Lawrence Oppenheim, pubblicato in due volumi nel 1905 e 1906. Il contenuto – un caposaldo per l’interpretazione delle norme di diritto internazionale – fu poi ripreso e annotato nel 1935 dal membro della Corte di Giustizia Internazionale Hersch Lauterpacht il quale, sull’argomento “uso improprio delle uniformi nemiche” asserì che “As regards the use of the national flag, the military insigna and the uniforms of the enemy, theory and practice are unanimous in prohibiting such use during actual fighitng belligerant forces ought to be certain of who is friend and who is foe”6. Lauterpacht ribadì dunque la validità dell’articolo 23 della Convenzione dell’Aja, ma solo per le azioni militari che includessero un conflitto a fuoco o situazioni in cui era legittimo sapere chi affrontare con certezza. Otto Skorzeny e la Panzerbrigade 150 avevano ricevuto chiare istruzioni di avvicinarsi ai vari obiettivi in uniforme americana, ma una volta assoggettati, ogni scontro con il nemico sarebbe dovuto avvenire con l’uniforme tedesca. Lo scrivente non è un giurista, tuttavia appare chiaro che l’impianto accusatorio era fortemente traballante.
La difesa di Skorzeny si appellò anche ad altri esimi giuristi, come Thomas Joseph Lawrence che in The Principles of International Law (1895) affermò che in Guerra si potevano indossare le uniformi del nemico “to creep unrecognised or unmolested into his position” o ancora di William Edward Hall – Treatise on International Law il quale legittimava “to use the distinctive emblem of an enemy in order to escape from him or drawn his forces into action”7. Le due prove incriminanti furono smontate nel corso dell’udienza: la testimonianza del Tenente O’Neil, quanto mai fumosa, non confutava un nesso diretto tra gli uomini da lui catturati in uniforme americana e lo stesso Skorzeny. Per quanto concerneva la dichiarazione del tedesco non c’erano prove evidenti che avesse ucciso o piuttosto ferito il sergente della M.P., o perlomeno non l’aveva manifestato. Nessuno dei soldati coinvolti nell’Einheit Steilau di Skorzeny poteva altresì essere imputato a posteriori per atti di spionaggio giacché l’articolo 31 della Convenzione dell’Aja garantiva la loro impunibilità: “La spia che, avendo raggiunto l’esercito a cui apparteneva, sia fatta più tardi prigioniera del nemico, è trattata come prigioniero di guerra e non incorre in alcuna responsabilità per i suoi atti di spionaggio anteriori”.
La sentenza emessa dal giudice americano colonello Gardner a carico di Skorzeny fu l’assoluzione per i reati contestati poiché La US General Military Court della zona tedesca “did not consider it improper for German officer to wear enemy uniforms while trying to occupy enemy military objectives and ther was no evidence that they had used their weapons while so disguised”8. Per un uomo delle SS l’assoluzione non voleva dire comunque la libertà poiché appartenere a quell’organizzazione conduceva all’ “arresto automatico” anche senza prove di reato. Sulla decisione presa da Gardner pesò non poco la testimonianza di un ufficiale britannico, il famoso colonnello del SOE Forest-Yeo Thomas detto “The White Rabbit” che rivelò come in alcune circostanze le forze speciali britanniche fecero ricorso al medesimo espediente per infliggere perdite al nemico. Non appena conclusosi il procedimento, il colonello inglese inviò un messaggio a Skorzeny per il quale nutriva una grande ammirazione: “You did a jolly good job during the war! If you are looking for a place to stay I have a home in Paris…Escape!”9.
Otto Skorzeny trascorse gli ultimi anni di vita in Spagna, a Madrid, protetto dal regime di Franco, dove morì nel 1975 come un semplice impiegato tecnico. Scorrendo le pagine della sua biografia, sebbene a tratti apologetica, non è difficile ammettere la straordinarietà di quest’uomo il quale, sebbene avesse indossato una delle uniformi più odiate nella storia, seppe combattere come solo pochi soldati sapevano fare. Skorzeny può essere definito in tanti modi, ma certamente non un criminale di guerra, se così fosse la fila sarebbe lunga anche tra molti uomini delle forze speciali alleate.
1 - Nella Panzerbrigade 150 l’unità destinata allo sfondamento, Otto Skorzeny incorporò una compagnia delle sue SS-Jagdverband Mitte e due compagnie dello SS-Fallschirmjaeger Bataillon 600. In più confluirono due battaglioni di paracadutisti della Luftwaffe e ancora soldati dell’esercito.
2 - M. Reynolds, The Devil’s Adjutant. Jochen Peiper, Panzer Leader, Staplehurst 1995, p. 110.
3 - G. Williamson, German Special Forces of World War II, Oxford 2009, p. 36.
4 - Nonostante i processi di Norimberga e di Tokyo fossero i più famosi, pochi sanno che dal 1945 al 1947 gli americani mandarono a giudizio 1.672 presunti criminali di guerra tedeschi suddivisi in 468 casi i quali si tennero tutti nell’ex campo di concentramento di Dachau. I processi di questo tipo ebbero una valenza legale molto diversa da quelli di Norimberga o Tokyo e le sentenze non furono così scontate. D. Riedel, The U.S. War Crimes Tribunal at the Former Dachau Concentration Camp: Lesson for Today, 24 Berkley J. Int’l Law, 554, 2006. URL: http://scholarship.law.berkley.edu/bjil/vol24/iss2/8
5 - Law Reports of Trials of War Criminals, vol. IX, pp. 90-94.
6 - Ibidem, p. 92.
7 - Ibidem, p. 93.
8 - ICRC - Costumary IHL – Rule 62. Improper Use of the Flags or Military Emblems, Insigna or Uniforms of the Adversary, URL: https://ihl-databases.icrc.org/customary-ihl/eng/docs/v1_rul_rule62
9 - Otto Skorzeny, My Commando Operations. The memoirs of Hitler’s Most Daring Commando, Schiffer, Atlgen PA, 1995, p. 453.
(foto: web)