Ugo Foscolo gridò, il 22 gennaio 1809, parlando nell'aula dell’Università di Pavia che oggi porta il suo nome, il proprio celebre “Italiani, io vi esorto alle storie”. Fu il motto e il principio del Risorgimento: l’invito rivolto a un intero popolo di ricordarsi chi era, cos’era e che cosa si aspettava, legittimamente, dall’Europa e dal mondo, a partire dalla dignità del lavoro e dal rispetto della cultura propria e altrui.
Quel messaggio non andò perduto. C’è però da chiedersi se, fatta l’Italia e gli italiani, non sia il caso di fare anche la storia della Marina italiana.
Non che non esista, naturalmente, una ricca storiografia, opera di un’importante scuola di autori italiani attivi, dagli anni Cinquanta, su iniziativa del loro modello e fondatore, il grande Aldo Fraccaroli; ma quello che manca, oggettivamente, è una cultura diffusa in questo campo. Ed è proprio questo limite la fonte, spesso e volentieri, di gravi errori politici e culturali pagati, nel corso degli ultimi due secoli, con troppo sangue e troppe risorse.
Visto che un esempio val più di cento discorsi, ecco un caso concreto.
Tutti, o quasi, sanno chi è stato il grande ammiraglio inglese Horace (Orazio) Nelson. Molti conoscono la battaglia navale di Trafalgar, non fosse altro che per aver attraversato, magari in gita scolastica, a Londra, Trafalgar Square. Quel successo, conseguito il 21 ottobre 1805 da 27 vascelli inglesi contro 33 analoghe unità avversarie, tra francesi e spagnoli, e concluso con un secco 18 a 0 per i britannici, assicurò al Regno Unito la superiorità navale fino all’epoca di Waterloo, 10 anni dopo, e alla definitiva caduta ed esilio di Napoleone. Visto che, il giorno dopo aver appreso la notizia di quella sconfitta, Bonaparte raddoppiò gli sforzi e gli stanziamenti per la Marina, i cantieri francesi, italiani, belgi e olandesi si misero alacremente al lavoro. Per il 1814 la parità tra Regno Unito e Impero napoleonico era cosa fatta e secondo i programmi, di lì al 1820, la Royal Navy di Sua Maestà britannica sarebbe stata schiacciata dal semplice peso del numero. Trafalgar significò, pertanto, un arco di 10 anni di respiro destinato a fare la differenza. Veniamo adesso a noi.
Nel 1494, insegnano i libri di storia scolastici, il re di Francia Carlo VIII discese in Italia su invito (e fu un grosso errore) del duca milanese Ludovico il Moro, spingendosi facilmente fino a Napoli. Resisi conto, nel giro di pochi mesi, di aver fatto un pessimo affare, i principi italiani decisero di coalizzarsi, il Moro incluso, ma disponevano, tra tutti, di un esercito inadeguato quanto a dimensioni e a organizzazione. Per fortuna le Marine italiane, costantemente impegnate in duri pattugliamenti nel corso della propria lotta plurisecolare contro i pirati barbareschi, erano di ben altra pasta. E fu proprio la contro-assicurazione rappresentata dalla Marina che permise di capovolgere la situazione.
Con precisione matematica, la squadra genovese, posta agli ordini di Francesco Spinola, attaccò, il 2 maggio 1495, davanti al porto ligure di Rapallo, nel Levante, la flotta francese comandata dal Sire de Miolans. Fu una battaglia navale feroce che si concluse con la cattura di tutte le navi francesi seguita dalla liberazione della città e dalla resa dello stesso de Miolans. A questo disastro seguì, poco dopo, la cattura, nelle acque di Sestri Levante, di un convoglio, proveniente da Napoli, formato da 12 velieri francesi e finito in bocca ai liguri in seguito a una riuscita operazione d’intelligence. Furono così liberate trecento donne, rapite in Campania a titolo di ostaggi, mettendo altresì le mani su un fantastico bottino utilizzato, in seguito, per costruire la sontuosa chiesa dell’Annunziata, a Genova.
I francesi, ai quali la sconfitta bruciò, allora e in seguito, parecchio, lamentarono la scarsa sportività degli avversari i quali, in effetti, non lasciarono a de Miolans il tempo di uscire con calma e di spiegarsi a battaglia, preferendo casomai forzare, all’alba, la catena di accesso al porto per poi attaccare, subito dopo, la squadra nemica colta, in pratica, come scrissero in seguito gli stessi transalpini, dans sessous-vêtements, ovverosia in mutande.
Carlo VIII, secondo quanto narrato dal Guicciardini, pensò, una volta appresa la sconfitta, di intimare agli italiani la restituzione delle navi, degli equipaggi e del disgraziato de Miolans a pena di non meglio specificati sfracelli, visto che aveva perso pure gli ostaggi. I suoi generali osservarono, per contro, che l’unica cosa da fare era, a questo punto, battere in ritirata alla svelta sia pure, malauguratamente, soltanto per via di terra, ormai, attraverso quella dannata, lunga e stretta penisola, militarmente piena di guai.
Dopo ave perso, durante la successiva battaglia di Fornovo del 6 luglio 1495, i carriaggi, il bottino e il tesoro reale, i francesi proseguirono la loro ritirata tornando, infine, per ottobre, in patria dopo aver lasciato in Italia le ossa, disseminate da Napoli fino alle Alpi, di più del 10% del loro esercito.
Da allora, e fino al 1636, la flotta francese non si fece più vedere, né ebbe alcun peso nel Mediterraneo. 141 anni di vantaggio a beneficio dell’Italia dei secoli d’oro rispetto ai 10 di Trafalgar.
Si tratta di un fatto dimenticato nei nostri libri di scuola (copiati come sono dai manuali francesi dell’Ottocento) e poco noto anche nelle file della Marina Militare. Ma in fondo non è poi così importante. I marinai italiani possono permettersi di sorvolare su certe cose: le praticano ogni giorno e ogni notte, per anni e da secoli (se non da millenni) con ogni mare, sulla base di quei tradizionali principi etici che rappresentano la vera “arma segreta” della nostra Marina.