Il 22 marzo 1975 il Parlamento italiano approvava un finanziamento straordinario di 1.000 miliardi di Lire per la “Costruzione e ammodernamento di mezzi navali per la Marina Militare”.
Si trattava dell’ultimo atto di un processo iniziato poco prima, ma che aveva avuto la sua decisiva e positiva svolta con la nomina dell’ammiraglio di squadra Gino De Giorgi a capo di Stato Maggiore della Forza Armata.
A partire dal 1970, la Marina si trovava in preda ad una gravosa contrazione del proprio strumento operativo: per ragioni finanziarie, erano stati radiati l’incrociatore Giuseppe Garibaldi – rimodernato alla fine degli anni ’50 e diventato la prima unità al mondo in grado di lanciare missili balistici intermedi con testate nucleari – ed era stato possibile realizzare poco naviglio moderno, quali i due caccia Audace, il prototipo dei futuri aliscafi lanciamissili (lo Sparviero) ed avviare la progettazione delle fregate della classe Lupo e dei primi due sommergibili della classe Sauro.
In totale, la Marina Militare poteva allineare solo 125 unità combattenti per un totale di 65.365 tonnellate, cui andavano aggiunte altre 30.350 tonnellate di naviglio ausiliario, per un totale complessivo di 96.715 tonnellate, ben lontano da quella cifra (200.000 tonnellate di naviglio) che era ritenuta indispensabile.
Secondo le previsioni dello Stato Maggiore (1973), entro un decennio la Marina avrebbe perduto 65.365 tonnellate di naviglio combattente maggiore; se fossero state considerate anche le tipologie di naviglio minore, la Forza Armata avrebbe dovuto radiare 95.715 tonnellate di navi militari.
Questa incredibile quantità di dismissioni aveva già allarmato i vertici e le teste pensanti della Marina: negli anni ’50 l’ammiraglio Romeo Bernotti – uno dei padri del pensiero strategico marittimo italiano – aveva insistito per il ricorso allo strumento della Legge Navale quale unica soluzione per garantire alla Marina un’adeguata disponibilità finanziaria.
Un decennio più tardi, l’ammiraglio Virgilio Spigai – capo di Stato Maggiore della Marina tra il 1968 ed il 1970 – avrebbe ulteriormente perfezionato la richiesta di Bernotti, ma nulla si concretizzò fino a quando non divenne dominus della Marina Militare l’ammiraglio Gino De Giorgi. Egli riprese il lavoro di Bernotti e di Spigai ma, in più, ebbe il merito di rileggere la situazione geostrategica contemporanea e futura, di comprendere quali nuove responsabilità si andavano manifestando a carico della Forza Armata e di richiamare pubblicamente l’attenzione della classe politica sull’urgenza e sulla necessità di non far estinguere la Marina Militare.
A differenza di Bernotti o di Spigai, che avevano scritto e difeso le proprie idee “a titolo personale”, l’ammiraglio De Giorgi si assunse il rischio e l’onere di rompere il silenzio ufficiale che, sino ad allora, aveva caratterizzato l’azione della Marina Militare. L’ammiraglio si espose parecchio: si trattava di “virare” rispetto ad una tradizione di silenzi, di rispetto per gli equilibri nei rapporti tra Forze Armate e, al contrario, di orchestrare una campagna culturale a sostegno del provvedimento che si voleva far approvare.
Senza dubbio, l’ammiraglio De Giorgi diede prova di possedere qualità manageriali, energia, coraggio e un’incrollabile fede nella propria missione che, in fin dei conti, gli permisero di conseguire il risultato agognato.
Immediatamente dopo la propria nomina, De Giorgi iniziò a sostenere le ragioni e le esigenze della Marina in tutte le sedi in cui aveva occasione di intervenire, spostando il dibattito dai palazzi della politica a qualsiasi tribuna in cui fosse possibile perorare la causa della Marina.
Lo strumento principale dell’azione di De Giorgi fu la pubblicazione del Libro Bianco della Marina Militare o, meglio, del documento intitolato Direttive e Orientamenti di massima della Marina Militare per il periodo 1974-1984, la cui prima stesura risale all’ottobre 1973, mentre quella definitiva al novembre dello stesso anno. De Giorgi descrisse sapientemente lo scenario strategico del momento e definì con notevole precisione la prevedibile evoluzione dello stesso.
In breve, accanto alla tradizionale minaccia rappresentata dall’Unione Sovietica – non si dimentichi che si era negli anni della Guerra Fredda – veniva chiaramente indicata la crescente importanza della competizione per lo sfruttamento delle risorse marittime – anche in virtù della gestazione di quella legislazione internazionale che, poi, sarebbe sfociata nella Convenzione di Montego Bay – e la crescita di capacità ed ambizioni delle Marine nord-africane e del Vicino Oriente.
La Marina Militare, da un lato avrebbe dovuto continuare ad assicurare lo svolgimento dei propri compiti nell’ambito del dispositivo NATO, dall’altro sarebbe stata chiamata sempre più ad operare – anche al di fuori dei meccanismi di alleanza – a difesa degli interessi nazionali, innanzitutto assicurando presenza e sorveglianza delle aree d’interesse.
Qui merita di essere ricordato che, fino a quel momento, l’area di riferimento per le operazioni navali italiane era identificabile con la porzione centrale del Mediterraneo; con il documento del 1973 si cominciava ad adombrare la possibilità che l’interesse nazionale chiamasse la Marina ad operare in tutto il bacino del Mediterraneo.
Per fare ciò, era necessario disporre di un nucleo bilanciato di vari tipi di navi che, conformemente alla tradizione della Marina repubblicana, fossero dotate di significative e moderne capacità in tutto lo spettro della guerra marittima: lotta antiaerea, antisommergibile e antinave, con quest’ultima che assumeva una particolare urgenza, vista la rapida diffusione dei missili antinave di costruzione sovietica.
Elemento centrale dei nuovi programmi navali sarebbe stata la realizzazione di un incrociatore “tutto ponte”, ispirato ai concetti della Sea Control Ship – allora in fase di sviluppo nella Marina statunitense ed in quella britannica – che avrebbe reso possibile l’operatività del mezzo aereo, un'imprescindibile componente del “sistema nave”, nonché un’irrinunciabile strumento nella moderna guerra sul mare.
Oltre alla nave maggiore, la Marina reclamava la realizzazione di altri due cacciatorpediniere – così da affiancarli ai due Audace – di una nuova classe di fregate antisommergibile, derivate dal tipo Lupo, ovvero la futura classe Maestrale, di unità rifornitrici per estendere il braccio operativo della Marina, di ulteriori due sommergibili della classe Sauro, di dieci cacciamine in vetroresina (la futura classe Lerici), di un’unità anfibia del tipo LPD e di un’unità salvataggio (Nave Anteo).
Con i fondi ordinari, sarebbe stato possibile completare l’acquisizione di missili antinave (Otomat-Teseo), di missili aria-superficie per gli elicotteri (Marte), di missili antiaerei (Albatros) e di ammodernare i Terrier e i Tartar alla versione "Standard", di acquistare nuovi sistemi di comando e controllo SADOC per gli incrociatori della classe Doria e di completare l’approvvigionamento di siluri pesanti A-184 e di nafta.
Con una disponibilità di 100 miliardi di lire all’anno per dieci anni, sarebbe stato possibile evitare l’irrimediabile declino della Forza Armata e dotarla di strumenti in grado di consentirle di assolvere ai propri compiti istituzionali.
L’ammiraglio De Giorgi dovette scontrarsi, anche all’interno della Forza Armata, con quanti non comprendevano l’opportunità di investire così numerosi fondi – 1/10 del totale – nella realizzazione della nuova Unità Maggiore (il Giuseppe Garibaldi) e nutrivano dubbi sulla capacità nazionale di far operare una credibile forza anfibia – per il potenziamento della quale era stata richiesta una nave da sbarco con bacino allagabile – viste anche le dimensioni del battaglione San Marco.
De Giorgi dovette spendersi non poco per far comprendere che lo strumento militare marittimo doveva essere flessibile, efficiente e dotato di tutte le capacità che si richiedevano per la moderna guerra navale, senza dimenticare che le costruende navi avrebbero dovuto operare per un lungo periodo di tempo e che sarebbe stato poco opportuno non dotarle di capacità che, sebbene non ancora presenti, avrebbero potuto esserlo in futuro. In tal senso, la possibilità di acquisire, in futuro, anche velivoli ad ala fissa imbarcabili non poteva essere pregiudicata da errate scelte progettuali o dalla mancanza di visione strategica.
L’ammiraglio in realtà, si sarebbe spinto ancora oltre, sognando non solo l’acquisizione di 18 velivoli V/STOL (a decollo corto e atterraggio verticale) – la cui capacità di operare dal Garibaldi costituiva uno dei requisiti per il progetto di quella nave – ma anche l’introduzione in servizio di 18 velivoli Tornado della Marina Militare – a similitudine di quanto fatto per la Marineflieger tedesca – da impiegarsi nelle missioni di contrasto del nemico nei choke point del Canale d’Otranto e di Sicilia e nel Canale di Sardegna.
In definitiva, la Legge Navale del 1975 ha costituito un provvedimento di importanza straordinaria, non solo perché ha scongiurato la scomparsa della Marina Militare ma anche perché l’ha dotata di quelle capacità di operare nel Mediterraneo – più o meno “allargato” – che l’hanno vista protagonista degli eventi internazionali dalla seconda metà degli anni ’80 in poi.
(Per approfondimenti: Francesco Zampieri, 1975 la Marina rinasce. La Legge Navale del 1975, Vicenza 2014, Inedibus.)
Immagini: Fototeca dell'Ufficio Storico della Marina Militare / web