Il pollo al forno, come previsto, si era dimostrato all’altezza della sua reputazione, consolidando, ove ce ne fosse stato bisogno, l’indiscussa maestria culinaria di Gastone, capo cuoco della nostra mensa aziendale, la cui autorità ed autorevolezza, da consumato chef, erano seconde solamente a quelle del Direttore. Non per niente in Stabilimento si era guadagnato (meritatamente) l’appellativo di “Vice Direttore morale”.
Gastone si era fatto le ossa sui transatlantici, quelli con la bandiera italiana, incominciando da ragazzino e imparando veramente tanto, in quelle accademie galleggianti che per raffinatezza ed elegante eccellenza, al mondo non erano secondi a nessuno. Sbarcato dopo dieci anni di Genova-New York, era stato oggetto del contendere di grandi alberghi e blasonatissimi ristoranti. Se lo accaparrò un grosso hotel di Cortina, dove rimase apprezzatissimo e ben pagato chef per quattro anni; dopodiché, forse ormai immalinconito dai paesaggi montani, bellissimi ma che prima o poi stufano, si concretizzò l’opportunità di ritornare a casa sua, che era a dieci chilometri dallo Stabilimento, a Villafranca Lunigiana. Questo grazie ad un concorso con prova d’arte in Arsenale a Spezia, che vinse a mani basse in quanto, ovviamente, non ebbe rivali e pur nella consapevolezza che la sua retribuzione sarebbe stata più che dimezzata.
Terminato il pasto, incontrai Parolini al bar della mensa.
-
Gregorio, come sono andati i suoi punti di fusione sul T4 che vi hanno portato stamattina in laboratorio?
-
Collaudo superato, abbiamo già fatto il certificato. Si sono fusi a 204,5°C spaccati, tutti e tre. Valore da manuale. Non me lo hanno detto ma credo sia esplosivo che hanno comprato in Svezia, da quella famosa fabbrica, roba di prima qualità. Non per niente il primo proprietario di quell’industria fu Alfred Nobel. Parolini, se ha tempo e voglia, dopo il caffè possiamo tornare al locale macinazione e continuare il lavoro di stamattina. Così mi da una mano e mi racconta di Augusta, finalmente.
-
Per me va bene. Possiamo andare quando vuole. Pensavo anch’io che avremmo continuato e l’ho già detto al mio Capo Officina. Allora Gregorio, se indovina con quale mezzo sono andato ad Augusta nel quarantasette, le offro il caffè.
-
Non vale, il caffè è già pagato.
-
E allora l’ammazzacaffè.
-
Va bene Parolini, ci provo. Dunque, vediamo se indovino; era nel quarantasette ed un viaggio in macchina o in treno fino in Sicilia doveva essere alquanto problematico. In aereo non credo proprio, ci sarà andato in nave, probabilmente un passaggio su una nave militare.
-
Sbagliato. Invece siamo andati proprio in aereo. Il capitano di corvetta Branciforti, delle armi navali, siciliano di Bagheria, credo fosse marchese o qualcosa del genere, due marescialli artificieri, Corbani e Sotgiu ed io.
-
Si, ma ancora non m’ha detto che c’è andato a fare ad Augusta, in aereo, per due mesi, con un marchese e due artificieri. Il mistero si infittisce e lei sembra che ci provi gusto a farmi stirare il collo.
-
Un po’ si. Lo confesso. Le confesso anche che mi piace molto la sua avidità di sapere le storie. Credo ci voglia una certa attitudine nel raccontare bene le cose, ma non capita spesso di trovare chi, come lei, ha una buona predisposizione ad ascoltare, e sapere ascoltare secondo me è una qualità rara.
-
Per la verità, mi lasci dire che sono rare e molto coinvolgenti le storie della sua vita e del suo lavoro, sarebbe un vero peccato se questo patrimonio venisse disperso. Perché non le scrive ?
-
No Gregorio, non mi sembra il caso, scrivere non è mestiere mio. Se vuole ci provi lei, lo autorizzo.
-
Chissà. Quasi quasi prendo appunti.
Ci incamminammo verso il locale macinazione polveri, aveva smesso di piovere e un sole pallido e malaticcio cercava con molto impegno di avere il sopravvento sulle nubi.
-
Mi ricordo che fui convocato dal direttore dello stabilimento del munizionamento navale, che era ancora in fase di ricostituzione. In quel periodo eravamo dislocati a Spezia a Vallegrande; le Officine di Lochi erano state bombardate. Era con lui il comandante Branciforti, con il quale sarei andato ad Augusta e che rivedevo dopo una diecina di anni, avendolo conosciuto a Lochi da guardiamarina. Ci abbracciammo. Il direttore mi espose il motivo della missione. Era per il rientro in Italia, inizialmente ad Augusta, di due ex nostre corazzate, la Vittorio Veneto e la Littorio, anzi “Italia” in quanto così era stata ribattezzata in fretta e furia dopo la caduta del fascismo. Avevamo l’incarico non ben specificato di effettuare dei controlli sul munizionamento imbarcato ed avremmo ricevuto istruzioni, attrezzatura e dettagli una volta sul posto. Le due Unità rientravano dai Laghi Amari in Egitto, che si trovano vicino all’origine del canale di Suez, dove erano state internate dagli inglesi, armate e con gli equipaggi, per oltre tre anni dopo l’armistizio e dopo che, come le avevo detto stamani, si erano consegnate a Malta alle potenze vincitrici, il 10 settembre del ‘43. La sorte delle due navi, come anche quelle del rimanente della flotta, che era ancora ragguardevole, era stata stabilita, forse già alla conferenza di Yalta due anni prima. A titolo di risarcimento, la ex Littorio se la prendevano gli americani e la Vittorio Veneto gli inglesi.
-
Ma, se erano già “prenotate”, perché farle rientrare in un porto italiano?
-
Giusta osservazione, Gregorio. Ma le cose erano parecchio complicate, anch’io ne venni a capo parecchio tempo dopo. Le navi erano state ormeggiate in Egitto, integre e al sicuro, lontano dai teatri di guerra ancora aperti in Europa, in vista di un impiego nell’estremo oriente, pensato, ovviamente, prima del lancio delle bombe atomiche. Quelle navi disponevano delle artiglierie principali, nove pezzi calibro 381, che per tecnologia e per gittata (quasi 45 chilometri) non avevano eguali al mondo, anche se come precisione facevano un po’ schifo. Questo per via delle cariche di lancio, perché erano realizzate con materia prima autarchica (disponevamo di pochissima cellulosa balistica e ci arrangiavamo ricavandola in parte dal legno e non dal cotone). Risultato, la dispersione dei colpi era spesso eccessiva, a volte anche di mezzo chilometro. A quel punto centrare un bersaglio fino a quaranta chilometri (che era il limite estremo della portata ottica) dipendeva quasi completamente dalla fortuna, malgrado la grande perizia dei direttori del tiro e dei telemetristi, la qualità dei cannoni e le eccellenti centrali di tiro e punteria, autentici gioielli della tecnologia di allora. Gli inglesi lo sapevano ed infatti la prima cosa che fecero e nella prospettiva di un reimpiego delle navi estremo oriente, fu quella di prepararsi a sostituire tutte le cariche di lancio con materiale di loro produzione, ma fatto come si deve, con ottimo cotone indiano od egiziano, tanto il calibro era uguale a quello dei loro cannoni, che per loro si chiamava 15 pollici e per noi 381 millimetri. C’era solo da rimisurare la velocità iniziale del proietto alla volata e rifare le tabelle.
-
Immagino che non se ne fece nulla. Non ho mai sentito o letto di impieghi militari di navi italiane, anche se ex, in posti così lontani.
-
Infatti, Gregorio, e i motivi furono molteplici. Alcuni li so, altri li immagino. Anzitutto erano navi concepite per proteggere la Nazione sul mare e quindi per operare prevalentemente in ambiti mediterranei, per cui avevano limitata autonomia di combustibile e per arrivare in Giappone avrebbero dovuto fare rifornimento almeno quattro volte. Poi erano un po’ giù di manutenzione; c’era da fare il carenamento in bacino e per un viaggio così lungo era necessario andare a rivedere una enormità di impianti e macchinari, meccanici, elettrici, oleodinamici. Si sarebbe presentato anche il problema di reperire parti di ricambio, e i magazzini degli arsenali a Spezia e Taranto, che erano stati prima bombardati e poi saccheggiati, si stavano ricostituendo e non è che avessero tanta roba. Ma il motivo principale credo sia stato politico. In effetti agli americani non importava molto di mandare in appoggio alla “loro” guerra in Giappone, delle navi che, anche se molto valide, per loro erano fuori configurazione. Il loro potenziale industriale (e quindi militare) era semplicemente spaventoso e i loro cantieri navali avevano da poco sfornato le quattro nuovissime corazzate della classe Iowa, con cannoni da 16 pollici, ovvero 406 millimetri di calibro e che filavano a trenta nodi. Erano gli stessi cantieri, circa una decina, che avevano costruito le navi da carico, le “Liberty”. Ne fecero quasi tremila, per mandare i convogli di materiale bellico in Europa e in Russia. Arrivavano a consegnare perfino tre navi a settimana e il più grosso cantiere impiegava più di trentamila persone; furono edificate delle vere e proprie città per alloggiare maestranze e famiglie.
-
Ho letto da qualche parte che erano navi fatte apposta per un solo viaggio, tipo usa e getta.
-
È vero in parte; per gli strateghi americani della logistica e nell’economia generale della faccenda, risultava pagante anche un solo viaggio a pieno carico, ma tante Liberty hanno continuato a navigare per parecchio tempo dopo la fine della guerra e con ogni bandiera. Si possono considerare benemerite perché dopo la guerra hanno dato un grosso impulso alla ripresa dei traffici e del commercio, rimpiazzando i tanti mercantili che, con i loro equipaggi, si erano sacrificati in mare vittime degli U-boote e, aggiungo io, alquanto oscuramente. Il primo pane normale che abbiamo mangiato dopo la guerra lo abbiamo fatto col grano che ci arrivava con le Liberty. Una curiosità… Se non ricordo male, una di esse, mi pare ribattezzata “Italterra” negli anni cinquanta se la comprò la Fiat, modificandola, per portare e vendere in America, per parecchi anni, mille vetture per volta. È vero, erano navi costruite in economia, pensi che alcune avevano qualche struttura fatta in cemento anziché in acciaio e si dice che ogni tanto di qualcuna si perdevano le tracce perché lo lo scafo si apriva.
-
Come, “si apriva”?
-
Si apriva perché erano i primi scafi a costruzione interamente saldata (e non chiodata) fatti in grande serie e quindi è stato pagato il prezzo dell’inesperienza e della fretta. Specialmente quando le “Liberty“ navigavano in acque con temperature prossime allo zero ed in mari tempestosi, le saldature si sollecitavano e se erano difettose o fragili potevano cedere e, a seconda del danno, le navi colavano a picco con equipaggi e carico. Evidentemente qualcuno aveva pensato che la strategia avesse la prevalenza.
-
Certo Parolini, oggi le saldature importanti se non passano l’esame radiologico si rifanno. Se gli americani avessero dovuto radiografare tutto lo scafo e rifare e radiografare di nuovo le saldature difettose, per ogni nave, altro che consegnare tre navi a settimana, neanche una al mese. È davvero molto cinico ma sicuramente era la cruda realtà. Ma torniamo alle due corazzate rientrate ad Augusta.
-
Infatti… Dicevamo che per gli americani era strategicamente irrilevante inviare le nostre corazzate in Giappone. Chi lo voleva fortemente erano gli inglesi ed il motivo era semplicemente e molto verosimilmente, per una loro grande voglia di vendicarsi.
-
Vendicarsi ? E di cosa?
-
Si. Per quello che ho capito era proprio così. Agli inglesi bruciava ancora la batosta che avevano subito dai giapponesi due anni prima. Nel quarantuno l’impero giapponese si stava espandendo militarmente e a macchia d’olio in tutto il sud est asiatico fino a minacciare seriamente i possedimenti inglesi in Malesia, principalmente Singapore. Fu allora che Churchill, “primo Lord del mare” e nonostante il parere contrario dei suoi ammiragli, decise di inviare una squadra navale, la “Forza Z”, allo scopo principale di intimorire i giapponesi, che però non si intimorirono affatto e con una azione da manuale ed esclusivamente aerea, in un paio d’ore colarono a picco l’incrociatore da battaglia “Repulse” e la corazzata “Prince of Wales”. Quest’ultima era l’ammiraglia della flotta di sua maestà, una nave poderosa e nuovissima, pensi che era ancora sugli scali quando scoppiò la guerra nel ’39. Credo che sia stato uno degli scontri a più alto rapporto danni inflitti/danni subiti della storia e mi pare che furono anche le prime navi in assoluto ad essere affondate in azione solo per attacco aereo. I giapponesi persero tre aerei in tutto ed ebbero venti vittime, gli inglesi subirono la perdita di due corazzate ed ebbero più di ottocento marinai caduti. All’alba del giorno dopo un aereo giapponese sorvolò a bassa quota lo specchio di mare luogo dello scontro lanciando due corone di fiori bianchi, identiche, una per i caduti giapponesi, l’altra per i caduti inglesi. Contemporaneamente veniva messo al corrente del fatto l’addetto navale tedesco a Tokio, con l’annotazione a latere: “la Bismark è da ritenersi vendicata”. Infatti sei mesi prima la “Prince” aveva preso parte alla caccia e all’affondamento della corazzata tedesca. A tutt’oggi, a distanza di quasi quarant’anni i due relitti giacciono capovolti in un fondale di settanta metri, considerato a tutti gli effetti come cimitero extraterritoriale di guerra. La loro posizione è segnalata da due boe con la bandiera della marina inglese e incatenate agli assi delle eliche delle due navi.
-
Certo Parolini che deve essere stato un vero smacco per la più grande potenza navale del mondo, ma com’è che si sono fatti fregare così?
-
Secondo me per due motivi. Uno, per aver completamente sottovalutato l’avversario. Ironia della sorte e della storia che si ripete; nel 1905 lo stesso identico errore fu commesso dalla flotta zarista del Baltico, che dopo un logorante viaggio durato un anno fu completamente e sorprendentemente annientata a Tsushima, dalla forza navale giapponese dell’ammiraglio Togo, che li aspettava al varco e che non perse manco una nave. Secondo motivo credo sia da addebitare direttamente a Churchill, che come personaggio politico fu abbastanza mitizzato ma che come stratega militare, sempre secondo me, era una emerita schiappa. Oltre a questo disastro ne era stato altresì responsabile di un altro e ben più grave, la disfatta inglese nei Dardanelli, nella penisola di Gallipoli nel 1915. Più di trentamila morti inglesi e quasi altrettanti fra australiani, neozelandesi, indiani e francesi, non contando i feriti e i prigionieri, mandati allo sbaraglio e finiti sotto il tiro al piccione dei turchi, prima di ritirarsi; e la ritirata, che riuscì molto bene, in tutta la campagna dei Dardanelli fu l’evento di maggior successo tattico dei britannici. Chissà, forse Churchill era convinto della imbattibilità, a prescindere, della Marina di sua maestà o forse non considerava il reale valore dei giapponesi, al punto da mandare in giro la “Forza Z” sullo stretto di Malacca senza neanche copertura aerea e non curandosi del parere dello stato maggiore. Purtroppo per gli inglesi, i giapponesi avevano invece buoni aerei, ottimi siluri, comandanti in gamba, equipaggi molto ben addestrati e, soprattutto, molto ben motivati ed imbaldanziti da quello che avevano combinato due giorni prima a Pearl Harbour.
-
Sa Parolini che questa dei Dardanelli non la sapevo. Ma se ci pensa bene a quei tempi, anche se non era casa loro, gli inglesi controllavano alla grande i punti cospicui del Mediterraneo. Gibilterra, Malta e Suez erano già un bel tris. Se si fossero piazzati pure sul Bosforo avrebbero fatto poker. La storia della “Forza Z” affondata me la ricordavo solo vagamente. Nella guerra si sa che ci si può lasciare la pelle, ma morire per scelte non calcolate è davvero triste.
-
Sicuro che lo è! Ma la storia è piena di questi “imprevisti”, che se poi la guerra la si vince, è normale che gli insuccessi vengano dimenticati o ridimensionati, ma se la si perde si amplificano, a volte oltre misura e chi perde viene ignorato o svilito, anche se ha dimostrato coraggio e valore. Dipende parecchio da chi la storia la scrive… dopo!
-
Ma Parolini, se gli inglesi avevano tutta questa voglia di lavare l'onta in Giappone, perché non sono andati a farlo con le loro navi ?
-
È questo il punto. Nel ‘43 anche se la guerra per gli alleati era già vinta, o quasi, agli inglesi non è che fossero rimaste tantissime navi. Parecchie gliele avevano affondate; quelle operative erano parecchio malandate e mandare una nave ai grandi lavori non se lo potevano permettere, perché significava privarsene per parecchi mesi. Di costruirne di nuove, come facevano gli americani, non se ne parlava proprio. D’altro canto non si potevano ancora sguarnire le posizioni. La flotta di casa, la “home fleet”, presidiava il mare del Nord e controllava gli accessi all’Atlantico e quindi non si poteva toccare, dovevano pure assicurare anche un minimo di presenza, anche se solo per mostrare la bandiera, nei territori d’oltremare. Rimanevano le navi del Mediterraneo, che non erano neppure poche. Per la verità gli inglesi due conti a suo tempo se li erano fatti, infatti progettavano di condividere la presenza operativa nel Mediterraneo con la flotta, ancora inutilizzata, dell’alleato francese, che gli avrebbe permesso di potersene andarsene a regolare i conti col Giappone. Ma i collaborazionisti di Vichy erano arrivati prima e avevano affondato gran parte delle loro navi, sia a Tolone che a Bona, in Algeria.
-
Ecco perché le corazzate italiane cascavano a fagiolo. Ora capisco. Ma, Parolini, poi che fine hanno fatto le due corazzate?
-
Demolite, a Genova. Sono finite negli altiforni di Cornigliano e tutto sommato sono state più utili da morte che da vive. Se ne ricavarono quasi centomila tonnellate di acciaio, di quello buono, che servì egregiamente per incominciare la ricostruzione, acciaio che si trasformò in ponti, binari, navi mercantili, ferri per il cemento armato con cui si ricostruirono case, scuole, ospedali e tante altre cose più utili, data la situazione del Paese, delle corazzate. Nessuna delle due potenze vincitrici esercitò il “diritto di prelazione”. Gli americani non si presero la ex Littorio perché erano troppo ricchi, di navi ne avevano a sfare ed averne un’ennesima e fuori configurazione per loro erano solo grattacapi. Al contrario, gli inglesi rinunciarono alla Vittorio Veneto perché erano troppo poveri e non avevano risorse per metterla in linea. La guerra li aveva dissanguati economicamente e le colonie non rendevano più come prima; pensi che quando noi già ci compravamo le topolino e i primi frigoriferi, gli inglesi mangiavano ancora il pane comprato con la tessera, fino al ’55 mi pare. Un episodio che non c’entra niente, ma emblematico e legato a quel periodo di povertà nazionale, fu quello del “grande smog”. Per fare valuta gli inglesi vendevano all’estero tutto il carbone buono, riservando per le loro necessità solo quello invendibile, scadente e pieno di zolfo. Ai primi di dicembre del ’52 ci fu molto freddo e si verificarono particolari condizioni climatiche, per cui Londra per una settimana fu completamente avvolta da uno spaventoso strato di smog anomalo, denso e mefitico per l’anidride solforosa, al punto che il giorno sembrava notte, la visibilità era meno di un metro, da non vedere neanche i propri piedi mentre si camminava. In pochi giorni morirono più di quattromila persone, soprattutto vecchi e bambini ed il doppio successivamente, per i postumi e le conseguenze.
-
Accidenti Parolini, mi consenta di dirle che lei come minimo sarebbe degno di una laurea ad honorem in Storia contemporanea e troverei pure giusto assegnarle una bella cattedra universitaria. Le assicuro che correrei ad iscrivermi e non mi perderei manco una lezione. Comunque ho bell’e capito che il racconto delle sue vicende siciliane, salta anche oggi. Ormai questo che stiamo macinando è l’ultimo campione da preparare e s’è fatta quasi l’ora di andarsi a cambiare.
-
È stato un piacere. Gregorio, guardi che glielo dico prima, se mi danno la cattedra e lei diventa uno dei miei studenti, non conti su nessun aiutino agli esami. Sarò rigorosissimo e se non studia la boccio.
-
No, Studio… studio. Allora alla prossima Parolini, grazie sempre e buona serata.
-
Alla prossima e buona serata anche a lei.
:::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::gregorio vella. aprile 2021::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::