E a Podenzana andammo, a cenare, in una umida serata di febbraio. L’occasione era il pensionamento di Acciaroli, Sandro, grande amico e coetaneo di Parolini, congegnatore all’officina spolette e artifizi.
Non lo conoscevo abbastanza ma da lui ero stato invitato, se non altro per la mia frequentazione con Parolini e, come per regola transitiva: chi è amico del mio amico è mio amico.
La mia Innocenti “Regent” blu, a gas e con il volante quadrangolare, comprata di terza mano da un paio di settimane ed appartenuta al sindaco del paese, si inerpicava sicura su per i numerosi tornanti che per meno di quattro chilometri ci separavano da Podenzana; era come se fosse lei più che il guidatore a conoscere bene la strada. A bordo eravamo in tre e mi sarei dovuto ricordare di posteggiarla in discesa, visto che ogni tanto aveva qualche problema all’avviamento. Il mio recente acquisto aveva suscitato non pochi (e non richiesti) giudizi da parte della gente dello Stabilimento, ovvero, chi professava tendenze politiche opposte a quelle del sindaco, sosteneva che, nonostante il prezzo da saldo, avevo sicuramente fatto un pessimo affare e che presto me ne sarei pentito; chi invece era di orientamento conforme a quello del primo cittadino, mi assicurava che la vettura, nonostante i kilometri, era certamente affidabilissima e che, considerando anche il prezzo, avevo sicuramente fatto un ottimo affare. Il tempo avrebbe dato, di massima, ragione alla seconda tesi; ma poi, si sa, la prima macchina è come il primo amore, le si perdonano i difetti e non si scorda mai.
Alla “Gavarina d’oro” al nostro arrivo l’atmosfera era già ben preriscaldata, sia come umore generale che come condizione termica. Eravamo una trentina, Direttore e Vice compresi, poche mogli e un signore mai visto prima, seduto vicino a Sandro, del quale avrei saputo dopo che era un generale a riposo dei paracadutisti e del perché della sua presenza; tutti distribuiti su una composizione di tavoli uniti a ferro di cavallo. Menù della casa rigorosamente tipico, unico e decisamente robusto, ovvero antipasti monotematici, con ricca carrellata di funghi in tutte le maniere, su bruschette di pane di Vinca; poi panigacci a volontà e vari tagli di squisita carne alla brace, detta rosticciana, per finire poi con torta e spumante regolamentari. I panigacci sono una antichissima specialità lunigianese di derivazione contadina e ultrapovera, in quanto costituivano il pane quotidiano fatto alla buona, nei boschi, dai raccoglitori di castagne quando erano lontani da casa ed in assenza di forno e di impasto lievitato (da quelle parti, nel medioevo, quando c’era da raccogliere le castagne si interrompevano pure le guerre). La preparazione è semplicissima e somiglia un po’ a quella delle piadine romagnole, ma più alla buona. Dei particolari piatti di terracotta molto rustici (detti testi) si fanno arroventare sul fuoco di legna per poi impilarli, interponendo tra piatto e piatto, un mestolo di impasto quasi liquido fatto di sola farina di grano, acqua e un po’ di sale. Dopo qualche minuto, disimpilando si ottengono dei dischi di pane caldo che per pochissimo tempo rimane morbido e fragrante, da consumare quindi subito, farcito con caciotta o stracchino, lardo e salumi vari, tutto rigorosamente indigeno e secondo fantasia. Gli stessi, in variante ligure, una volta secchi si possono invece lessare e, tagliati a triangoloni, consumare come primo piatto, con pesto e grana, nel qual caso assumono il nome di testaroli. L’addetto storico del locale ai panigacci era il vecchio Eustachio, barese trapiantato, figura quasi mitologica, sia per la straordinaria abilità nel prepararli, che per la dimestichezza col fuoco e le cui mani, grosse come badili, con i lunghi anni di “piropratica” sembravano essere diventate refrattarie al calore.
Per fortuna oltre me c’era pure una mezza dozzina di colleghi giovani, in maggioranza ragazze che abbassavano amabilmente l’età media del gruppo e che, decisamente carine, abbigliate sull’elegante, truccate e profumate, chiunque avrebbe fatto fatica a rendersi conto che, come per una prodigiosa mutazione, erano le stesse ragazze che, non destando particolare interesse, incontravo in Stabilimento infagottate nella ruvida e poco aggraziata tuta da lavoro di cotonaccio blu-monocolore.
La serata trascorse lieta tra buon cibo, allegria, scherzi e fiaschi di vino che si svuotavano con impressionante rapidità (erano tempi in cui la parola etilometro non c’era neanche nel vocabolario), qualcuno procurò una fisarmonica (credo fosse dotazione fissa del locale) che nelle sapienti mani di Bertacchini, l’autista del Direttore, accompagnò improvvisati cori di canzoni strappacuore un po’ retrò, alternate a oscene canzonacce da osteria o da caserma che, e non senza sorpresa, mi accorsi che le ragazze sapevano tutte e benissimo. Capece, poi, commosse tutti esibendosi in un “Torna a Surriento” veramente memorabile, per poi trascinarci tutti quanti, nessuno escluso, in un unanime e fragoroso “funiculì funiculà”.
Come dicevo prima non conoscevo quasi per niente Acciaroli, tranne il fatto che, per sentito dire, aveva avuto una vita interessante, o travagliata a seconda dei punti di vista, ma non sapevo bene da cosa.
Fu Cànepa, dell’Ufficio personale che come decano si era assunto l’incarico di fare il discorso di prammatica, prima di dare la parola al direttore, alla consegna dei regali con le istantanee di rito (solito orologio, solita medaglia e foto dello Stabilimento con iscrizione manoscritta dal Direttore, nonché una bella motosega nuova, frutto della nostra colletta), a fare scattare la molla della mia incorreggibile curiosità, quando e sullo scherzoso, accennò al fatto che il festeggiato era tale, più che per il pensionamento, per il fatto che era arrivato vivo (e in buona salute) al pensionamento, appunto, e che la medaglia conferitagli sarebbe stata un problema, visto che nel petto non c’era rimasto più posto. Il mio sguardo corse a Parolini che mi capì al volo dicendomi solo che, siccome, e dopo molto insistere, mi ero offerto di accompagnarlo a fine serata a casa sua a Monzone, avremmo potuto imbarcare anche Acciaroli, che viveva a Serricciolo, quindi lungo la strada per Monzone, agevolando così Venturelli, che abitava appena fuori il paese e sulla cui auto Sandro era prima venuto su a Podenzana.
Era implicito che il premuroso ma interessato espediente, suggerito da Parolini, sarebbe servito soprattutto a farlo parlare e per il mio appagamento, cosa che fu molto facilitata da Parolini, che mi avrebbe fatto da spalla in maniera impagabile.
Pertanto la serata, o meglio la nottata, ebbe un interessantissimo epilogo. La cappa di umidità si era dissolta per lasciare il posto ad un magnifico cielo stellato. La mia Regent non fece i capricci all’avviamento e ci condusse (intenzionalmente quasi a passo d’uomo, dilatando al massimo il tempo del tragitto e quindi della conversazione) a casa di Sandro dove, nella cantinetta e sottovoce per non svegliare moglie, figlia e genero, facemmo quasi l’alba invitati a “qualche” bicchiere della staffa.
Stappò per noi una bottiglia veramente da grandi occasioni, di un vino ambrato di tre anni, che faceva lui con le uve della sua piccola vigna e che aveva una particolarità; oltre ad essere veramente gradevole, le viti da cui il vino proveniva, avevano fatto proprio il carattere dell’antica pineta esistente nello stesso terreno prima della vigna, conferendo così al vino un retrogusto aromatico, discreto ma deciso, come di inebrianti fragranze alpine. Il vino si dimostrò tra l’altro un ottimo complice per accrescere la limitata loquacità di Sandro che, e in paradossale contrasto alla sua storia, è stata una delle persone più timide e di indole più mansueta che io abbia mai conosciuto.
Riassumo nel prossimo racconto di questa serie, la storia di Sandro, per come da lui appresa e per come integrata dai numerosi dettagli forniti da Parolini, storia che a raccontarla tutta e per bene si scriverebbe un libro intero.