Ital-IA: Si può sviluppare una industria dell’intelligenza artificiale (IA) in Italia?

(di Giorgio Giacinto)
29/04/19

In Italia tendiamo a minimizzare i convegni accademici perché riteniamo che gli argomenti trattati siano “teorici”, distanti dalla vita reale. Forse questo accade perché da troppi anni abbiamo relegato l’Università italiana a un ruolo marginale rispetto allo sviluppo economico e sociale del paese. O forse perché crediamo sia poco utile il ruolo che una teoria ben fondata abbia sulla efficacia delle soluzioni proposte.

Chi ha partecipato, come me, alla due giorni organizzata dal CINI (Consorzio Interuniversitario Nazionale per l’Informatica) sull’Intelligenza artificiale in Italia, si è trovato di fronte una realtà che definirei schizofrenica. Il pomeriggio del 18 marzo è stato contrassegnato da una sequenza serrata di incontri tematici paralleli su 12 diversi ambiti applicativi della IA: salute e medicina, automazione industriale, conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale, trasporto e smart cities, cybersecurity, contenuti multimediali e arte, applicazioni spaziali, industria alimentare, pubblica amministrazione, finanza, istruzione. In ciascun incontro, decine di ricercatori e professionisti provenienti tanto da atenei e centri di ricerca italiani, quanto dalle imprese, hanno presentato la sintesi delle attività svolte. In totale, nelle 5 ore pomeridiane si sono alternate centinaia di brevi presentazioni che hanno mostrato una grande vitalità della comunità italiana nell’ambito della Intelligenza Artificiale. E tanti esempi positivi di collaborazione fra la ricerca accademica e impresa con risultati di rilievo internazionale.

Ma il giorno successivo, traendo le conclusioni dai lavori del giorno precedente, i nodi sono arrivati al pettine: perché nonostante le numerose e varie attività, difficilmente i risultati ottenuti occupano le prime pagine dei giornali? Perché quando parliamo di intelligenza artificiale pensiamo immediatamente alle ricerche svolte in USA, Cina, Russia e alle aziende i cui prodotti spesso teniamo fra le mani e i cui profitti dipendono in modo consistente dall’applicazione di tecniche di Intelligenza Artificiale?

La risposta purtroppo è sempre la stessa da qualche decennio a questa parte: nessun governo ha mai scommesso in modo deciso su ricerca e innovazione in Italia. Che significa sia finanziare direttamente la ricerca mettendo a disposizione risorse per aumentare il numero di ricercatori a partire dai dottorati di ricerca, sia destinare risorse consistenti per finanziare bandi competitivi dove le diverse anime della ricerca in Italia possano cooperare in progetti di grande respiro con dotazioni tecnologiche e fondi per lo sviluppo di prototipi che consentano di tradurre in pratica le metodologie sviluppate nei laboratori. Ma significa anche incrementare le azioni di sistema che incentivino le aziende a destinare risorse ad attività ad alto rischio e alla collaborazione con i centri di ricerca, ad esempio attraverso meccanismi di sgravio fiscale e snellimento di inutili procedure burocratiche. La progettazione e sperimentazione di tecniche di intelligenza artificiale è infatti legata alla elaborazione di grandi quantità di dati e alla verifica su larga scala, tutte attività che richiedono risorse di tempo, personale altamente qualificato e attrezzature.

Non si può sperare che i risultati importanti che l’accademia italiana sta producendo negli anni, anche attraverso la presenza in importanti progetti europei, abbiano una ricaduta nel tessuto economico nel Paese senza la creazione di una vera e propria infrastruttura di ricerca. Senza cioè la consapevolezza che solo finanziando la ricerca accademica e industriale si può abilitare la creazione di tecnologie e nuovi posti di lavoro.

Così mentre anche in Europa, la Francia in prima fila, ci si attrezza per soffiare sul fuoco delle idee con programmi di investimento mirati a ritagliarsi un ruolo da protagonista nello scenario internazionale, in Italia al massimo ci si può aspettare di ricevere le congratulazioni da parte dell’esponente politico di turno quando è evidente il successo in ambito internazionale delle proposte accademiche. Ma lo si considera come se si trattasse di un caso fortuito e non come il frutto di scuole di formazione e ricerca scientifica il cui impianto metodologico è la chiave del successo. E infatti non è un caso che nelle università e aziende estere all’avanguardia spesso il motore delle idee si sia formato nelle università italiane.

Cito un esempio, che per me è paradigmatico: il caso delle auto a guida autonoma. Oggi quando se ne parla vengono in mente Tesla, Google e forse altri “giganti”, ma che sono entrati in questo settore in tempi relativamente recenti. Ma qualcuno conosce le attività pioneristiche del Vislab di Parma (https://vislab.it)? Che già dalla fine degli anni ’90 aveva attrezzato una Lancia Thema (battezzata ARGO, foto apertura) con le quali aveva realizzato la “Millemiglia in Automatico” (http://www.argo.ce.unipr.it/ARGO/) e che poco meno di quattro anni fa è stata acquistata dalla società Californiana Ambarella per 30 milioni di dollari.

Non è che uno dei tantissimi esempi di quanto la ricerca nell’ambito dell’intelligenza artificiale sia viva in Italia, attiva su tematiche di frontiera e capace di produrre risultati che hanno un impatto a livello mondiale. Una ricerca frenata dalla esiguità delle fonti di finanziamento, e da una regolamentazione delle spese che anziché essere improntata alla massimizzazione del merito, dell’efficienza e all’assunzione di responsabilità, sembra piuttosto voler privilegiare il galleggiamento nella mediocrità. Il mondo della ricerca accademica e industriale in Italia sta mostrando che esistono le condizioni per essere protagonisti. Si tratta solo di volerlo, e non preferire, invece, una realtà di gregari.

Foto: web / Presidenza del Consiglio dei Ministri / autore