WhatsApp ha spopolato tra i cittadini idi tutto il mondo ma non tutti hanno approfondito gli aspetti legali caratterizzano il servizio offerto che però sono state accettate al momento del primo ingresso nell’applicazione non di meno, ad un anno dalla sentenza del TAR di Bologna, sono sempre di estrema attualità la problematiche circa l’utilizzo di fotografie da parte di militari sulle diverse applicazioni di messaggistica istantanea.
In quell’occasione il giudice amministrativo regionale aveva rigettato il ricorso di un militare dell’Esercito chiarendo che l’art.720, co. 2, lett. b, del D.P.R. n. 90/2010, proibisce al militare l’uso dell’uniforme nello svolgimento delle attività private e nonostante WhatsApp sia strumento telematico di comunicazione a distanza di natura privata e non già un vero e proprio social network destinato ad una pluralità di persone.
Benché l'applicativo WhatsApp sia strumento telematico di comunicazione a distanza di natura privata1 e non già un vero e proprio social network destinato ad una pluralità di persone, la condotta adottata dal ricorrente appariva comunque illecita e incompatibile con lo status di militare, non risultando verosimile l'invocata esimente della finalità di garantire la propria affidabilità personale. In quel caso il militare subiva un procedimento disciplinare in quanto inviava delle foto che lo ritraevano in divisa a garanzia della sua serietà oltre al fatto che aveva pubblicato su un sito di compra-vendita diversi annunci in cui pubblicizzava la vendita di cani utilizzando come recapito telefonico quello di un telefono cellulare intestato all’ente presso cui prestava servizio. Il procedimento per le accuse di cui agli articoli 640 e 485 del codice penale veniva archiviato ma il soggetto incappava nella sanzione disciplinare della sospensione dal servizio per due mesi poiché “con tale grave comportamento, ha disatteso fortemente i doveri propri dello stato di militare nonché quelli attinenti al giuramento prestato, al grado rivestito, al senso di responsabilità e al contegno che ogni militare deve tenere in qualsiasi circostanza”2
Il graduato ricorreva innanzi al TAR adducendo tra le sue motivazioni la violazione e falsa applicazione dell’art. 1355 del decreto legislativo n. 66/2010, in combinato con l’art. 1357 del medesimo decreto legislativo, eccesso di potere per travisamento ed erronea valutazione dei fatti in particolare il fatto di non aver divulgato il suo commercio su siti web o social network, che l’invio di foto in uniforme era avvenuta solo su WhatsApp e quindi che la condotta posta in essere era privata e al di fuori del servizio.
Il TAR quindi riteneva violate le norme espresse nell'art. 720 c. 2 lett. b del d.P.R. 15 marzo 2010 n. 90 e in applicazione della sentenza della Cassazione 10 settembre 2018 n. 21965; Tribunale Parma 7 gennaio 2019, affermava che la condotta “appariva comunque illecita e incompatibile con lo status di militare, non risultando verosimile l'invocata esimente della finalità di garantire la propria affidabilità personale.”
Il Collegio bacchetta l’amministrazione militare poichè giudica la sanzione della sospensione dal servizio per due mesi, inflitta al ricorrente, “illogica” e sproporzionata rispetto alla condotta. Infatti, nonostante l’ampia discrezionalità amministrativa nella commisurazione della sanzione “non sindacabile in via generale dal giudice della legittimità salvo che in ipotesi di eccesso di potere, nelle sue varie forme sintomatiche, quali la manifesta illogicità, la manifesta irragionevolezza, l'evidente sproporzionalità e il travisamento"3, il TAR accoglie il ricorso annullando la sanzione rimettendo all'autorità procedente per l'emanazione di una nuova sanzione conforme e senza vizi. Il vizio evinto nella motivazione della sanzione influisce su un altro vizio quello del procedimento. Ciò significa che se l’amministrazione punisce un condotta ma non la confuta nel procedimento, contravviene al principio di corrispondenza tra addebito e sanzione. In pratica l’annuncio sul sito di compra-vendita è stato effettivamente inserito quindi il fatto è vero ma non è stato contestato e dimostrato
È recente la notizia secondo cui l’esercito svizzero ha proibito ai suoi dipendenti l’utilizzo di servizi di messaggistica istantanea stranieri per le comunicazioni ufficiali. I soldati elvetici dovranno usare Threema che ha i propri server in Svizzera e non soggiacciono alle norme del Cloud Act 4, i dati oltre che cancellati non appena vengono consegnati sono resi anonimi in virtù di tecniche di hashing ed infine le chiavi di crittografia per criptare e decriptare i messaggi sono generate dagli utenti e non vengono conservate sui server fornendo maggiori garanzie di sicurezza in fatto di protezione delle informazioni.
Semplificando, è vero che WhatsApp ha la crittografia end-to-end ma tale metodo con riguarda i “dati di contorno” delle conversazioni (metadati) ovvero, ad esempio, gli interlocutori, durata e data/ora dei dialoghi. Usare WhatsApp, Signal e simili vuol dire mettere a disposizione delle autorità oltreoceano l’elenco dei propri contatti (amici, familiari e soprattutto colleghi).
1 Cassazione 10 settembre 2018 n. 21965; Tribunale Parma 7 gennaio 2019
2 TAR Bologna, Sezione I del 18 febbraio 2021 n. 124
3 Consiglio di Stato sez. III, 13 ottobre 2020, n.6150 (T.A.R. Sicilia Palermo, sez. I, 3 maggio 2019, n.1234¸ T.A.R. Piemonte sez. I, 3 aprile 2018, n.399; T.A.R. Liguria sez. II, 16 febbraio 2018, n.158)
4 “Clarifying Lawful Overseas Use of Data (CLOUD) Act” – approvato dal governo Usa lo scorso anno – consente alle autorità statunitensi, di acquisire dati informatici dagli operatori di servizi di cloud computing a prescindere dal posto dove questi dati si trovano.
Foto: U.S. Army