Storicamente la metallurgia e la produzione di armi sono sempre stati parenti stretti, legame che peraltro nell’era dell’informatica, dell’elettronica spinta e dei materiali compositi è stato sottoposto a ricalibratura ma non è scomparso. Il periodico levarsi di venti di guerra commerciale relativi all’import-export di acciaio è rivelatore di quanta importanza rivestano ancora certi settori tipicamente da “old economy”.
Lo scorso 15 febbraio i principali produttori europei di acciaio si sono mobilitati, con l’appoggio dei lavoratori e dei sindacati di settore, per chiedere un intervento normativo dell’Unione Europea a protezione della produzione siderurgica continentale con l’introduzione di una tassa sulle importazioni, cresciute del 25% nell’ultimo anno.
I produttori siderurgici del Vecchio Continente puntano il dito in particolare contro l’acciaio cinese che beneficerebbe di una politica di dumping dovuta al fatto che la Cina, primo produttore mondiale, essendo in rallentamento ha fatto registrare un calo dei consumi interni riversando l’eccedenza produttiva sul mercato internazionale mettendo così sotto pressione la quotazione dell’acciaio il cui prezzo per tonnellata è sceso del 40% nel corso del 2015.
Nell’esprimere il proprio sostegno all’iniziativa degli operatori europei del settore, il ministro francese dell’economia, Emmanuel Macron (foto), ha dichiarato ai microfoni di France 24 che: è in corso una battaglia fra i maggiori produttori mondiali di acciaio e l’Europa deve dotarsi delle armi adeguate al livello della competizione.
Per molti secoli la realizzazione di armi è consistita essenzialmente in un lavoro di crogiuolo, soffietti, martello e incudine per la forgiatura e la ribattitura di lame, punte e una varietà di armature, corazze ed elmi, perciò era naturale che i luoghi di produzione – che fossero villaggi, centri cittadini con la presenza di numerose “botteghe” di fabbri e armaioli, o i primi insediamenti industriali – si collocassero in prossimità dei boschi (importanti per i rifornimenti di legna), dei territori ricchi di minerale di ferro e successivamente (con lo sviluppo della produzione di acciaio) di carbone, una combinazione ideale per le aziende siderurgiche.
Non dimenticando in questo quadro l’importanza della prossimità di fonti di approvvigionamento idrico, dato che per il loro funzionamento (al pari di pressoché tutti gli altri ambiti industriali), gli stabilimenti siderurgici necessitano di notevoli quantità di acqua.
Questo ha influenzato a sua volta la localizzazione dei settori consumatori di acciaio dato che tra i comparti metallurgico, meccanico e della produzione di armi esiste una stretta contiguità di filiera riscontrabile anche nella storia – in particolare ovviamente nella fase iniziale – dell’insediamento dei rispettivi impianti.
Il principale bacino carbonifero statunitense, costituito da litantrace di ottima qualità, si estende per un migliaio di chilometri sul versante occidentale dei Monti Appalachi, dalla Pennsylvania all’Alabama, mentre i maggiori depositi di minerale di ferro si trovano nel distretto dei grandi laghi, in particolare tra il Lago Superiore e il Lago Michigan, e negli stati nord-orientali.
Queste caratteristiche geologiche hanno rappresentato un terreno fertile per l’industria della siderurgia da sempre ben rappresentata nella zona appalachiana settentrionale e nei centri portuali dei grandi laghi (Detroit-Toledo, Lorain, Cleveland, Erie, Chicago), favorevolmente ubicati rispetto ai giacimenti ferrosi e carboniferi.
Anche se i tempi in cui si era guadagnata il soprannome di “steel city” sono passati (oggi si tende a dare maggiore risalto al fatto che è la città natale di Andy Warhol o che proprio qui Henry John Heinz ha inventato il suo famoso ketchup), Pittsburgh è stata per decenni la capitale mondiale dell’acciaio, tanto che alla fine del XIX secolo il magnate della metallurgia Andrew Carnegie era ritenuto l’uomo più ricco del mondo.
In quel periodo la Pennsylvania vantava il maggiore tasso di industrializzazione degli Stati Uniti, con Philadelphia che deteneva il primato nel settore della meccanica. Il lascito di quella tradizione mantiene comunque una certa importanza con la US Steel (176° posto nella classifica Fortune 500 dei principali gruppi USA), che ha ancora oggi la propria sede a Pittsburgh.
Nella seconda metà del XX secolo le successive ristrutturazioni che hanno interessato il settore dei metalli hanno inciso in profondità nel tessuto sociale di quest’area e gli ultimi dati sembrano evidenziare la necessità di un ulteriore riassetto.
Secondo la World Steel Association, per gli USA il 2015 si è chiuso con la registrazione, nel solo mese di dicembre, di un calo del 16,3% (oltre un milione di tonnellate in meno), rispetto allo stesso periodo del 2014. Un’evidente accelerazione di un trend di ridimensionamento che negli ultimi 15 anni ha visto passare la produzione annuale di acciaio statunitense dai 91,5 milioni di tonnellate del 2003 ai circa 75 milioni del 2015.
Osservando la sua collocazione si nota che Pittsburgh si trova (non a caso) su una sorta di linea di confine tra le principali zone industriali degli Stati Uniti, una posizione ideale per rifornire di acciaio i poli produttivi del Nord-Est e del Midwest. Pittsburgh sorge nel sud-ovest della Pennsylvania e rappresenta la propaggine più occidentale degli Appalachi che poi declinano per far posto alle grandi pianure centrali che si estendono a perdita d’occhio fino alle Montagne Rocciose.
In questa regione si trova il Middle West, attraversato dal Mississippi che ne delimita la porzione occidentale (North e South Dakota, Minnesota, Nebraska, Iowa, Kansas e Missouri) e quella orientale. Di quest’ultima fanno parte gli stati comprendenti la zona dei grandi laghi laurenziani – Wisconsin, Michigan, Illinois, Indiana, Ohio – i quali si contendono con la costa atlantica il primato per l’area regionale industriale più importante degli Stati Uniti.
In generale, da un punto di vista puramente tecnico-industriale il settore della difesa non presenta una propria specificità essendo la risultante della combinazione di una pluralità di attività produttive di cui in molti casi rappresenta la punta avanzata in termini di innovazione tecnologica.
Nel quadro della dinamica dei rapporti tra potenze la scienza e la tecnologia diventano uno strumento di lotta tra di esse ed è questa la ragione di fondo del carattere duale di ogni innovazione in questi campi. Qualunque paese possieda un’industria chimica può produrre armi chimiche o batteriologiche, e quanto sia problematica la distinzione tra produzione civile e militare di energia atomica è stato recentemente ribadito in modo molto chiaro dalle tensioni internazionali attorno al nucleare iraniano, al momento attenuate (eccezion fatta naturalmente per Israele), da un accordo con cui se non altro si è guadagnato tempo.
Allo stesso modo, pur con tutte le differenze di cui si deve tener conto (mediamente la produzione militare presenta maggiore complessità), la costruzione di carri armati, navi e aerei da guerra, nonché di vettori spaziali e satelliti, presuppone l’esistenza di una forte industria meccanica.
Secondo quanto riporta Richard Overy, all’inizio degli anni ’40 i diplomatici tedeschi comunicarono a Berlino che gli Stati Uniti erano del tutto impreparati ad un eventuale impegno in guerra e che la mobilitazione della loro industria a un livello tale da poter sostenere lo sforzo bellico, avrebbe richiesto anni. In realtà la conversione dell’apparato industriale americano verso la produzione di guerra richiese solamente qualche mese, dal febbraio del 1942 all’autunno dello stesso anno.
La produzione americana di veicoli militari si sviluppò negli stati centro-occidentali, intorno ai grandi laghi […] Se nel 1941 vi furono prodotte più di tre milioni e mezzo di autovetture, durante la guerra la produzione precipitò alla cifra incredibile di 139 automobili. Questo declino liberò un’enorme capacità industriale per lo sforzo bellico. Nel 1945 l’industria forniva un quinto di tutte le attrezzature militari del paese, compresa la quasi totalità dei veicoli e dei carri armati, un terzo delle mitragliatrici e quasi i due quinti delle forniture aeronautiche. La sola Ford produsse durante la guerra più armi dell’Italia (“La strada della vittoria. Perché gli alleati hanno vinto la seconda guerra mondiale”, il Mulino, 2011).
Come fornitore militare la Ford si era già messa in evidenza durante la prima guerra mondiale dato che alla fine del conflitto il veicolo a motore più utilizzato dagli alleati risultò, con 125.000 unità, una variante del Model T. In occasione della seconda guerra mondiale l’azienda del Michigan si distinse particolarmente per la partecipazione alla produzione del bombardiere quadrimotore della Consolidated, B-24 Liberator che fu il velivolo da bombardamento alleato più costruito del conflitto con circa 18.200 esemplari.
Il B-24 fece il suo ingresso in combattimento nell’aprile del 1942 e fu utilizzato soprattutto nei teatri del Pacifico e del versante europeo del Mediterraneo anche nei ruoli di pattugliamento marittimo, antisommergibile, trasporto e addestramento.
La complessità iniziale del progetto (un B-24 era composto da 30.000 parti principali per un totale di 1.550.000 elementi), che si basava sull’applicazione delle tecniche della produzione automatizzata messe a punto dal modello organizzativo della catena di montaggio fordista, aveva portato sull’orlo del fallimento, ma dopo i necessari adattamenti al culmine della produzione si raggiunse un rateo di assemblaggio di un bombardiere ogni 63 minuti.
Si capisce bene il senso strategico (oltre alle ovvie ragioni economiche e politiche di carattere più immediato), dell’operazione di salvataggio e rilancio dell’industria automobilistica di Detroit (in particolare di General Motors e Chrysler), intrapresa dall’amministrazione Obama nel 2009. Allo stesso modo delle forze armate, anche l’industria della difesa deve avere i propri riservisti pronti a mobilitarsi quando è richiesto dal livello di impegno sul campo di battaglia.
Anche se il salvataggio nel suo complesso è riuscito, a quanto sembra l’intervento governativo non è stato sufficiente ad invertire il segno di un declino pluridecennale che interessa la città di Detroit, profondamente segnata anche dalle ultime crisi e conseguenti ristrutturazioni degli anni 2000. Basti pensare che negli anni ’50 gli abitanti di Detroit erano 1,86 milioni e oggi si aggirano intorno ai 700 mila, con l’area metropolitana che si attesta comunque su un rispettabile dato di 4,3 milioni.
Per contrastare la tendenza allo spopolamento l’amministrazione cittadina ha varato una serie di provvedimenti che vanno dal recupero di alcune aree attraverso progetti di riqualificazione urbana, all’offerta di incentivi per l’acquisto di case e sgravi fiscali per chi intende investire o aprire un’impresa in città. La strada verso la più volte annunciata rinascita di Detroit resta però in salita visto che al momento si procede all’abbattimento di edifici con un ritmo di 150-200 al mese, nell’ambito di un piano che si prevede durerà ancora diversi anni.
Di tutt’altro segno la situazione di Chicago nel vicino Illinois, dove comunque i problemi non mancano se si considera che, nonostante i tempi di Al Capone siano lontani, vi si registra ancora un tasso di criminalità fra i più alti degli Stati Uniti.
Fra le grandi aree urbane americane si colloca al terzo posto per popolazione – 2,7 milioni di abitanti nella sola municipalità e 9,5 nell’area metropolitana - alle spalle di New York (8,4 e 23) e Los Angeles (3,9 e 12). A ulteriore riprova della sua importanza, Chicago è stata la palestra politica e il trampolino di lancio verso la presidenza per Barack Obama, dal cui entourage proviene l’attuale sindaco (in carica dal 2011), Emanuel Rahm, capo di gabinetto alla Casa Bianca tra il gennaio 2009 e l’ottobre 2010.
A Chicago la Boeing ha stabilito il proprio quartier generale dopo l’acquisizione, nel 1997, della McDonnell-Douglas la cui sede storica si trova a St Louis nel Missouri, divenuto il maggior centro produttivo per le forniture del Pentagono, del gruppo guidato da Dennis Muilenburg.
Alla McDonnell si deve il primo jet imbarcato della US Navy, l’FH-1 Phantom (foto), che fu impostato nel 1943 ed effettuò il primo volo il 26 gennaio 1945. Si trattava del primo velivolo a reazione ad appontare su una portaerei dato che il Ryan FR Fireball (che aveva effettuato il primo volo nel giugno del 1944), era un ibrido dotato di un motore radiale a elica e di un turbogetto.
La stessa designazione sarà utilizzata per il più famoso F-4 Phantom II entrato in servizio presso la US Navy nel dicembre 1960, riuscendo a ben figurare in Vietnam nonostante la difficile situazione delle forze armate americane nel teatro indocinese. Fin dall’inizio risultarono evidenti le potenzialità dell’F-4 come caccia multiruolo e ne furono realizzate varie versioni: da caccia per impiego terrestre (F-4C), da ricognizione (RF-4) e da attacco antiradar (F-4G), per una produzione complessiva di circa 5.200 esemplari.
La Douglas è nota soprattutto per la sua gamma di velivoli commerciali della serie DC (Douglas Commercial), tra i quali a loro volta i più famosi (e con tutta probabilità anche i più riusciti) risultano essere i DC-9. Fra i primi modelli della serie è stato di fondamentale importanza il DC-3, primo velivolo della storia in grado di rendere redditizio il viaggio con i soli biglietti dei passeggeri, caratteristica che ne fece da subito un modello molto amato dalle compagnie aeree, e che alla fine degli anni ’30 gli permise di imporsi come lo standard del trasporto aereo statunitense di persone.
Nella storia di questa azienda non mancano però le produzioni militari degne di nota fra cui sicuramente spicca il C-47 Skytrain realizzato per l’US Army e per la US Navy con la denominazione R4D (foto). Si trattava della versione militare del DC-3 che aveva effettuato il primo volo all’inizio di luglio del 1933 e nel 1940 fu selezionato come trasporto militare standard per le forze armate americane.
Durante la seconda guerra mondiale il C-47 conobbe un’altissima intensità d’impiego nel trasporto truppe e lancio paracadutisti, tanto da conquistarsi un posto di primo piano tra i mezzi comunemente ritenuti di maggior importanza per la vittoria degli alleati. Ne furono realizzati 10.700 esemplari, più altri 2.000 su licenza in Unione Sovietica e venne impiegato anche dalle squadriglie della inglese RAF con la designazione Dakota.
I destini delle due compagnie si incrociano alla fine degli anni ’60 con l’acquisizione della californiana Douglas da parte della McDonnell di St Louis. Il 27 luglio 1972 si assiste al primo volo di un esemplare di preserie dell’F-15 Eagle che entrerà in servizio presso l’USAF nel novembre del 1974.
Questo bireattore supersonico da superiorità aerea si presentava come il primo caccia con un rapporto spinta-peso pari all’unità o superiore, il che gli consentiva di salire con velocità eccezionali e anche in verticale. Nonostante fosse stato pensato in funzione del combattimento aereo, la sua base progettuale si rivelò adatta anche per lo sviluppo di una versione multiruolo con cui la McDonnell-Douglas rispose alla richiesta dell’Air Force di un caccia “dual role”.
Questo requisito venne soddisfatto con la progettazione dell’F-15E Strike Eagle (foto) che entrò in servizio in seno all’USAF nel 1988. Mantenendo intatte le capacità aria-aria del predecessore, lo Strike Eagle può essere impiegato indifferentemente in missioni di attacco e di combattimento aereo.
Da un’alleanza con la Northrop, nella quale la MDD poté valorizzare la propria esperienza di lungo corso nei velivoli imbarcati, nacque nella seconda metà degli anni ’70 l’F/A-18 Hornet. Entrato in servizio presso la US Navy nel 1980, ed elaborato successivamente in una serie di versioni migliorate, l’Hornet è un caccia bimotore supersonico con uguali capacità di combattimento aria-aria e aria-superficie. Nel 1992, con l’obiettivo di sostituire sia gli F-14 nel ruolo di caccia da difesa della flotta, sia i primi F/A 18, fu avviato il programma F/A-18E/F Super Hornet entrato in servizio con il primo reparto addestrativo nel corso del 2000.
Con l’acquisizione della Hughes, nel 1984, entra a far parte della famiglia McDonnell-Douglas anche l’ala rotante e in particolare l’AH-64 Apache che nel 1976 si era aggiudicato il concorso dell’US Army per un nuovo elicottero d’attacco e combattimento, la cui versione A entrerà in servizio nel 1986.
In ultimo, la collocazione del Midwest nell’epicentro della produzione agroalimentare statunitense offre lo spunto per considerare un ulteriore aspetto di carattere generale: nel suo divenire storico lo sviluppo economico procede per differenziazione, tra agricoltura e industria, tra diversi settori all’interno di queste e poi tra imprese all’interno degli stessi settori.
Questo processo però non genera attività che funzionano come compartimenti stagni, reciproche influenze e mutua determinazione sono la regola. L’industrializzazione della guerra è il risultato di un’evoluzione tecnica e scientifica plurisecolare che abbraccia un’ampia varietà di produzioni, fra le quali figura anche quella di macchine agricole.
Nel 1890, Benjamin Holt (1849-1920), nativo di Concord, nel New Hampshire, mette a punto “Old Betsy” (foto), un trattore che presenta la particolarità di muoversi su dei cingoli (“caterpillar” in inglese) anziché su ruote. Il gruppo Caterpillar (54° posto nella classifica Fortune 500 US Business) ha la propria sede a Peoria, nell’Illinois, ed è leader mondiale nel settore “construction and farm machinery”.
La struttura del cingolo e la sua larghezza aumentano la superficie di appoggio del trattore evitando lo sprofondamento (o comunque riducendone il rischio), in caso di terreno cedevole o fangoso. Una caratteristica molto utile nella costruzione dei primi cannoni autopropulsi (artiglieria semovente) e dei carri armati.
Si potevano così conciliare due esigenze: la robustezza del mezzo e la sua mobilità, il che permise la messa in costruzione di affusti cingolati idonei a supportare bocche da fuoco di grande peso e potenza e allo stesso tempo il rafforzamento degli elementi di difesa passiva con l’ispessimento delle blindature.
Com’è noto il primo impiego operativo del carro armato avvenne alla fine dell’estate del 1916 nella battaglia della Somme, i cui combattimenti ebbero inizio il 1° luglio dopo sette giorni di bombardamento delle postazioni tedesche da parte dell’artiglieria alleata.
Qui gli inglesi misero in azione i primi “tanks”, precisamente tra le rovine del villaggio di Flers, il 15 settembre 1916. Due anni dopo di fronte ad Amiens, realizzarono il primo grande sfondamento mediante mezzi corazzati nella storia delle guerre moderne (John Keegan, “Il volto della battaglia”, il Saggiatore, 2001).
Un quarto di secolo prima Benjamin Holt aveva posto le basi per il passaggio dal trattore al tank. “Old Betsy” rappresenta quindi il contributo della meccanizzazione dell’agricoltura statunitense delle grandi pianure centrali, alla meccanizzazione degli eserciti.
(foto: web / World Steel Association / General Dynamics Land System / U.S. Army Signal Corps / U.S. Navy)