La prima esperienza di counterinsurgency per gli USA: ascesa e declino del Ku Klux Klan

(di Leonardo Chiti)
21/10/16

Nella sua autobiografia il manager italoamericano Lee Iacocca (nome di battesimo all’anagrafe Lido Antonio, i cui genitori Nicola e Antonietta erano partiti per l’America dai dintorni di Napoli), direttore generale della Ford dal 1970 al ’78 ma noto soprattutto per aver risanato e rilanciato la Chrysler nella prima metà degli anni ’80, riporta un episodio che la dice lunga sulla profondità delle radici di una psicologia sociale che in qualche modo si è dimostrata tuttora presente nel Sud degli Stati Uniti.

Negli anni ’40 Iacocca lavorava nel ramo vendite della Ford, nell’ufficio di Chester, in Pennsylvania, e nel 1949 divenne direttore della zona di Wilkes-Barre. Quando alla fine dello stesso anno arrivò il momento di compiere il suo primo viaggio di lavoro al Sud, il suo capoarea e mentore, Charlie Beacham, nato e cresciuto da quelle parti, lo convoca per dargli alcune dritte.

Tra le altre cose Beacham gli dice: il tuo nome non piacerà. Quindi ecco che cosa voglio che tu faccia. Dì che hai un nome di battesimo molto strano – Iacocca – e il tuo cognome è Lee. Vedrai che al Sud piacerà che ti chiami come il loro eroe. E infatti ricorda Iacocca: piacque moltissimo. A ogni incontro iniziavo con quella versione e si entusiasmavano. In quel modo riuscii a disarmare tutti i meridionali. Passavano sopra al fatto che ero uno yankee, e per di più italiano, e fui accettato come uno di loro. (“Una autobiografia”, Sperling & Kupfer, 1986).

Dopo circa 4 generazioni, a più di 80 anni dalla fine della Guerra di Secessione, per la maggioranza degli abitanti del Sud, il generale Robert Edward Lee, prima al comando dell’armata del North Virginia e dal febbraio 1865 comandante in capo dell’esercito confederato, era ancora il loro eroe.

Un curioso e illuminante esempio di quale fosse il clima sociale che si respirava nel periodo immediatamente successivo a quel conflitto fratricida, lo si ritrova nella storia dei fattori che portarono ad un’importante innovazione giuridica nell’ambito dei rapporti di diritto privato: il contratto di affiliazione commerciale o franchising, la cui introduzione risale proprio all’indomani della Guerra Civile Americana.

Con la fine delle ostilità alcuni uomini d’affari del Nord cercarono di aprire una rete di filiali e di punti vendita nei territori della ex Confederazione ma a seguito di attacchi incendiari o esplosivi queste strutture venivano regolarmente distrutte.

Per evitare i continui sabotaggi dei propri insediamenti aziendali, gli industriali e i commercianti yankees stipularono una serie di accordi con imprenditori locali ai quali concedevano l’esercizio in proprio dell’attività di distribuzione con annesso utilizzo del marchio e dell’insegna, limitandosi ad elaborare delle linee direttive generali alle quali i concessionari del Sud dovevano attenersi nello svolgimento dell’attività.

In un certo senso il ricorso agli accordi di franchising è stato un provvedimento di matrice contro-insurrezionale e si può ritenere che gli Stati Uniti abbiano fatto la loro prima significativa esperienza di contro-insorgenza proprio in occasione della impostazione e successiva condotta di una politica di pacificazione della Dixie Land.

Per ragioni di comodità storico-descrittiva, nel trattare gli eventi relativi alla Guerra Civile si tende sempre ad adottare uno schema che individua una sequenza di tre fasi: l’avvicinarsi del conflitto, il combattimento vero e proprio e la ricostruzione. In realtà, le difficoltà che avrebbero inevitabilmente accompagnato quest’ultima, erano già presenti nelle valutazioni politiche della classe dirigente unionista ben prima della fine della guerra.

Comunque la si definisca, reintegrazione politica del Sud negli Stati Uniti o creazione di una rete di relazioni sociali post-emancipazione, la Ricostruzione si avviò in pratica nel momento in cui il primo soldato dell’Unione pose piede nella cosiddetta “Confederazione”. Il problema di quale sarebbe stato il destino del Sud una volta conquistato o attirato nuovamente nell’Unione esisteva ancora prima della guerra (Reid Mitchell, “La Guerra Civile Americana”, il Mulino, 2003).

Non per questo la pacificazione del Sud e un’effettiva riconciliazione furono meno problematiche, e le linee di faglia interne alla stessa amministrazione Lincoln e ai successivi governi federali, complicarono ulteriormente le cose.

All’incirca per un decennio, il lascito insurrezionale della Guerra di Secessione ha trovato espressione nei pittoreschi costumi, nelle croci di fuoco, negli stravaganti riti e nelle violente scorribande (battezzate con nomi roboanti: Orribile Sepolcro, Luna Sanguinante, Ultima Ora), del cosiddetto “leale ordine cavalleresco” del Ku Klux Klan.

Il nucleo originario di questa organizzazione era formato da 6 giovani ex soldati confederati che la vigilia di Natale del 1865, dismessa la divisa grigia da pochi mesi (da poche settimane per alcuni, visto il complicato e scaglionato calendario di resa dei diversi reparti che formavano l’esercito del Sud), si riunirono nella cittadina di Pulaski, nel Tennessee, e nello studio del giudice Thomas M. Jones “formalizzarono” la nascita del Ku Klux Klan.

Il nome, che era stato scelto con l’intenzione di conferire all’associazione (fin dalla denominazione) un suggestivo alone di mistero, discende nella sua prima parte dalla parola greca kuclos (cerchio, circolo), mentre klan era un tributo alle origini scozzesi di alcuni dei soci fondatori. Questi ultimi, che la delirante retorica di cui è intrisa la tradizione narrativa del Klan e dei suoi simpatizzanti definirà “i sei immortali”, si chiamavano: Calvin E. Jones, John B. Kennedy, John C. Lester, James R. Crowe, Richard R. Reed, Frank O. McCord.

A onor del vero, in seguito nessuno di loro si dimostrò mai particolarmente interessato all’impegno “politico” o prese sul serio gli scopi che si prefiggeva l’organizzazione che aveva contribuito a fondare e, a quanto risulta, in nessuna occasione i componenti del gruppo originario parteciparono ad azioni di un qualche rilievo. In fondo tutti e sei venivano da famiglie dell’establishment e non molto tempo dopo intrapresero una rispettabile e ben remunerata carriera nell’ambito delle professioni liberali.

Comunque la miccia era stata accesa e il materiale infiammabile non mancava di certo: la moneta confederata era pesantemente svalutata, la prospettiva di una generalizzazione dei decreti di emancipazione minacciava di sovvertire tutta l’economia di un certo Sud abituato all’agiatezza garantita dal lavoro degli schiavi.

L’impronta nordista e repubblicana della politica di ricostruzione che si cercava di innestare sulle ceneri della secessione e dello schiavismo, la rendevano particolarmente odiosa agli occhi di quel che restava delle élites economiche, politiche e militari sudiste, che nonostante la sconfitta esercitavano ancora una forte presa sulla propria gente.

Il Congresso aveva varato l’Ufficio dei Profughi e degli Schiavi Liberati, un organismo politico-amministrativo con cui si puntava ad estendere l’autorità federale negli affari economici e nella produzione e attuazione normativa per riformare la regolazione dei rapporti sociali in tutto il Sud.

In ogni Stato i Repubblicani si organizzarono per dare concretezza attuativa al Civil Rights e al XIV emendamento (entrambi del 1866), che incontravano l’intransigente opposizione della maggioranza bianca conservatrice i cui interessi erano tradizionalmente rappresentati dal Partito Democratico.

Come tutti sanno quest’ultimo ha definitivamente emendato il proprio passato razzista esprimendo (con l’elezione del 4 novembre 2008), il primo presidente afroamericano della storia USA (nella foto, il presidente a dx), portando così a compimento un percorso di “mutazione liberal” iniziato con i mandati presidenziali di John Kennedy e Lyndon Johnson. Quest’ultimo (che ha firmato il Civil Rights Act il 2 luglio 1964), convertitosi alla causa dei diritti civili dopo essersi espresso contro l’estensione del suffragio per i neri agli inizi della sua carriera politica in Texas.

In questo quadro il Ku Klux Klan non ci mise molto a passare da quella che era poco più di una giocosa goliardia degli inizi, alla violenza terroristica organizzata. Durante il convegno del 1867 che si tenne al Maxwell House Hotel di Nashville, nel Tennessee, i partecipanti elessero come capo dell’ordine dei cavalieri del Klan (“Gran Mago dell’Invisibile Impero”, secondo la loro terminologia), Nathan Bedford Forrest. Questi durante la guerra si era distinto come uno dei più brillanti comandanti di cavalleria dell’esercito confederato e prima ancora era stato proprietario di piantagioni e mercante di schiavi.

A Forrest si deve la prima vera organizzazione del Klan in base ad un modello di ispirazione militare articolato in bande composte da un minimo di 20 a un massimo di 60 uomini che, agendo come formazioni leggere compivano le loro spedizioni punitive notturne volte a colpire neri liberati, bianchi progressisti, insegnanti di scuole frequentate da studenti di colore, ebrei e cattolici.

I membri dell’associazione erano infatti espressione del tradizionale ceto dominante identificato dall’acronimo WASP (White Anglo-Saxon Protestant), e anche se i neri erano senz’altro il bersaglio prediletto, non disdegnavano di prendersela con “cospiratori giudei” e “papisti romani”, il che portava naturalmente a mettere nel mirino gli irlandesi (in grande maggioranza cattolici), e gli italiani.

Il Paese di provenienza di questi ultimi era definito spregiativamente “Dago” o “Wop”, termini tradotti nelle memorie di Iacocca come “Terronia”, e proprio l’ex top manager (nato il 15 ottobre 1924), ricorda come in gioventù venisse abitualmente etichettato - nonostante vivesse ad Allentown, in Pennsylvania, che non era certo una roccaforte del Klan - con il nomignolo di “little wop” che suona come “terroncello”.

A ben vedere, le incursioni dei sedicenti “difensori della supremazia e della purezza della razza bianca”, non richiedevano chissà quali abilità militari: lo sfaldamento della legge e dell’ordine caratteristico di ogni dopoguerra, la tolleranza o la vera e propria complicità di numerose autorità locali e l’ausilio della notte, rendevano queste imprese facili e prive di rischio.

Tuttavia quella che sembrava un’inarrestabile estensione della rete organizzativa del Klan - in gran parte da attribuire all’opera del generale Forrest (foto a sx) e alle sue amicizie tra gli ex ufficiali dell’esercito confederato - e il suo radicamento nel tessuto sociale e nelle istituzioni politiche del Sud, costituivano un problema che non poteva essere sottovalutato.

In un suo rapporto degli inizi del 1868, William Carlin, ex maggior-generale unionista comandante la prima divisone del XIV Corpo, divenuto direttore dell’Ufficio per i Profughi e gli Schiavi Liberati scriveva: L’organizzazione del Klan è così estesa e così ben organizzata e armata, che la possibilità di porre un freno morale o giuridico alle sue gesta è impensabile. La forza delle armi è l’unica che possa ricondurli all’ordine.

Il culmine delle violenze del KKK fu registrato proprio nella seconda metà del 1868 in Arkansas, dove nei 3 mesi che precedettero le elezioni del 3 novembre (che videro la nomina a presidente di Ulysses Grant, ex comandante in capo dell’esercito dell’Unione, che sarà rieletto nel 1872), vennero commessi non meno di 200 omicidi. Questa apparente prova di forza scatenerà la reazione che segnerà la fine del primo ciclo di attività del Ku Klux Klan.

All’indomani delle elezioni, il governatore dell’Arkansas, Powell Clayton, decretò la legge marziale e reparti della milizia territoriale (antenata della US National Guard che verrà istituita ufficialmente nel 1916), divisero lo Stato in 4 distretti militari nei quali avviarono una metodica opera di rastrellamento, con arresti e scontri frontali contro le bande del Klan che si disgregarono in pochi mesi.

Dover fronteggiare le truppe della milizia era cosa ben diversa dal compiere incursioni notturne approfittando del fattore sorpresa e della debolezza delle vittime. Inoltre era venuto a mancare anche il vantaggio costituito dalla complicità delle autorità locali, messe fuori gioco dalla legge marziale.

Nella primavera del 1869 il Ku Klux Klan dell’Arkansas era praticamente annientato e negli altri Stati non si tarderà a imitare il “modello Clayton”: legge marziale, tribunali speciali, mobilitazione della milizia e intervento di truppe federali, misero fine entro il 1873, al KKK come elemento di guerriglia organizzata e strumento di influenza politica, almeno per i successivi 40 anni. In effetti, dopo questa prima fase la storia del Klan ha registrato altri due importanti cicli di attività negli anni fra le due guerre mondiali e dalla metà degli anni ’50 fino all’inizio dei ’70.

Nuclei locali di associazioni che si rifanno in qualche modo alla tradizione del KKK sono tuttora presenti negli Stati Uniti ma la loro presa sul tessuto sociale (salvo clamorosi ritorni di fiamma), è ridotta ad un livello residuale e l’ultimo raduno realmente di massa – convocato dall’allora “Mago Imperiale” Robert M. Shelton, ex operaio in una fabbrica di gomma, originario di Tuscaloosa, in Alabama – risale ormai alla primavera del 1971.

Anche se nella fase iniziale i suoi membri si riconoscevano senz’altro nella leadership carismatica di Forrest, il Klan non ebbe mai una struttura gerarchica centralizzata che ne coordinasse le azioni. Le varie sezioni rispondevano solamente ai capi locali fra i quali nell’ultimo periodo nacquero persino forti rivalità. Il raduno convocato da Shelton fu infatti un tentativo di appianare i contrasti interni ma si rivelò un fallimento.

In tutta questa storia si deve però tenere presente che la sola attività repressiva non poteva cancellare la base sociale che si riconosceva nella simbologia e nei proclami del Klan e alla quale quest’ultimo, pur con tutte le sue stranezze, aveva dato rappresentanza essendone in fin dei conti diretta espressione.

Nel 1873, una volta messi in condizione di non nuocere gli invasati cavalieri bianchi, le questioni della ricostruzione e pacificazione del Sud rimanevano aperte e tali resteranno ancora per diversi decenni.

Alle devastazioni dovute alla guerra si aggiunsero i danni prodotti dalle avide speculazioni dei “robber barons” (baroni ladri), una leva di imprenditori che, come suggerisce il soprannome con cui sono passati alla storia, nel portare avanti i propri affari non si interessarono di certo alla possibilità di generare delle ricadute positive per il Sud, limitandosi a saccheggiarne le risorse.

Potendo contare su una terra fertile, un clima mite e una piovosità sufficiente: la valle del Tennessee sembrava predestinata a diventare una seconda California. Ma poi, alla fine dell’Ottocento, era arrivato il capitalismo dei robber barons […] Nello spazio di pochi anni furono abbattute le foreste, provocando una massiccia erosione del suolo e trasformando ampie zone di terre fertili in un paesaggio lunare (Wolfgang Schivelbusch, “3 New Deal. Parallelismi tra gli Stati Uniti di Roosevelt, l’Italia di Mussolini e la Germania di Hitler. 1933-1939”, Tropea Editore, 2008).

Preso atto che per la ricostruzione del Sud non ci si poteva affidare agli “animal spirits” e che (a dispetto di quanto sosteneva Adam Smith), raramente la libera soddisfazione degli egoismi individuali porta spontaneamente alla soddisfazione dell’interesse collettivo e all’armonia sociale, per risollevare le sorti del Sud si optò per un altro tipo di politica che registrò una forte accelerazione nel 1933, all’inizio del primo mandato di Franklin D. Roosevelt.

Come si è già visto in altre occasioni, il ciclo di investimenti pubblici avviato con il New Deal ha avuto un ruolo fondamentale per lo sviluppo economico del Sud e in questo senso può essere considerato il primo vero progetto di ricostruzione successivo alla Guerra di Secessione, avendo posto le basi per l’effettivo reinserimento a tutto tondo della Dixie Land nella Federazione.

Da questo emerge la doppia natura che ha caratterizzato il New Deal che per gli Stati Unito ha rappresentato la risposta alla Grande Depressione, svolgendo allo stesso tempo anche la funzione di una sorta di Piano Marshall interno.

Si può ritenere che questo abbia costituito il vero punto di svolta per la rinascita economica del Sud a cui si è accompagnata la sua ascesa in termini di influenza politica e in entrambi i percorsi la punta di diamante è rappresentata dallo Stato del Texas.

A circa 20 anni di distanza dall’avvio del New Deal, il Texas National Democratic Party vantava la più potente delegazione al Congresso di Washington e aveva insediato i propri uomini in posti chiave che gli permettevano di controllare i prezzi delle principali derrate alimentari (mais, riso, grano e frutta), della coltivazione e vendita del cotone, nonché l’assegnazione di fondi alla Difesa, la politica energetica (con in testa la componente petrolifera), e infine la realizzazione delle opere pubbliche.

La presidenza di Lyndon Johnson, subentrato inizialmente in qualità di vicepresidente a Kennedy (assassinato il 22 novembre 1963 a Dallas), e poi vincitore delle elezioni nel 1964, segna uno spartiacque nel rapporto tra il Sud e le principali forze politiche statunitensi, che in entrambi gli schieramenti non si fecero certo mancare la loro brava dose di trasformismo, con una sostanziale inversione dei ruoli rispetto al primo Civil Rights del 1866.

Riguardo al voto degli stati meridionali nelle elezioni del 1968, il democratico Hubert Humphry riuscì ad affermarsi soltanto in Texas, mentre nel resto del Sud la spuntarono l’indipendente George Wallace (ex governatore dell’Alabama), e l’ex vicepresidente di Dwight “Ike” Eisenhower, Richard Nixon che riportò la vittoria nella corsa per la Casa Bianca.

Nonostante ne avesse sostenuto la componente normativa antisegregazionista, Nixon si dimostrò abile nell’impugnare i provvedimenti sui diritti civili approvati dall’amministrazione Johnson (su cui oltretutto finì per pesare come un macigno il costante peggioramento della situazione in Vietnam), presentandoli come una specie di attacco strisciante ai valori tradizionali degli Stati Uniti, tanto cari alla “maggioranza silenziosa” degli americani.

Il candidato repubblicano accusò gli esponenti del Partito Democratico di essersi rivelati incapaci di gestire i riflessi sociali di quella legislazione e di aver finito per voltare le spalle persino alla classe operaia bianca e sindacalizzata ma di animo conservatore (tradizionalmente parte dell’elettorato democratico e fra cui la campagna di Nixon farà breccia), per correre dietro ai neri e agli intellettuali.

Il processo che ha segnato il ritorno ad un ruolo da protagonista del Sud nell’economia e nella politica statunitensi, si è combinato con lo spostamento del peso elettorale di questa regione dal Partito Democratico al Partito Repubblicano e la parabola politica della dinastia Bush è emblematica di questo riposizionamento.

Alla fine degli anni ’40 George Bush senior (dopo essersi laureato in economia a Yale nel 1948), si trasferì dal New England al Texas dove ha fatto fortuna nel settore petrolifero. Successivamente diventa anche un esponente di spicco del Partito Repubblicano dello Stato, riorganizzandone in particolare la sezione di Houston che sarà il trampolino di lancio per una carriera politica che lo porterà fino alla Casa Bianca, prima come vice in entrambi i mandati di Ronald Reagan (1981-1989), e poi, dal 1989 al 1993, come presidente, carica poi ricoperta anche dal figlio George Walker Bush (già governatore del Texas), dal 2001 al 2009.

Certa retorica elettorale, nel rincorrere il voto di quello che ritiene il “sudista medio”, blandisce, e non di rado solletica, le pulsioni viscerali che si esprimono nelle tipiche invettive anti-establishment (quindi anti-Washington, identificata come la sede della corrotta e opprimente burocrazia federale), trascurando il fatto che ormai da decenni la stessa classe dirigente del Sud (e tramite questa le istanze sociali che vi sono collegate), è parte integrante di quell’establishment in tutte le sue declinazioni: grande industria, alta finanza, catene editoriali-mediatiche, élite politica, grand commis, ecc.

Questo implica che, anche nel Deep South, qualunque candidato presidenziale prima o poi deve inevitabilmente venire a patti con l’establishment, perché riflettendoci bene, ci si accorge che non sono pochi gli ambiti che compongono il tessuto sociale del Sud a trarre beneficio da un rapporto diretto con le tanto vituperate istituzioni federali visto che: l’industria aerospaziale dipende dai bilanci di NASA e Pentagono, il settore agroalimentare (che, ad esempio, incluso l’allevamento del bestiame, pesa per il 20% sul PIL del Texas), è foraggiato dai sussidi statali e l’industria petrolifera gode della protezione dall’import di idrocarburi dal Medio-Oriente.

A conti fatti, con i loro mandati presidenziali i due George Bush hanno incarnato il riconoscimento politico del definitivo compimento di quel processo di ricostruzione e reintegrazione del Sud che era stato oggetto di preoccupazione ai massimi livelli istituzionali fin dal momento in cui il primo soldato dell’Unione pose piede nella cosiddetta “Confederazione”.

(foto: web / Palazzo Chigi / White House)