La successione dei Mullah e il destino dei talebani

(di Paolo Palumbo)
16/02/17

Tra le rare figure di spicco che hanno segnato la storia dell’Afghanistan degli ultimi decenni, ricordiamo sicuramente il “Leone del Panshir” Massud e il talebano Mullah Omar (foto apertura). Due figure dissimili, animate da intenzioni contrapposte con una visone politica sul futuro del proprio suolo natio accomunata solo dalla volontà di spazzare via i sovietici negli anni Ottanta, ma solo limitatamente a quel periodo. Il Mullah Omar, da semplice guerrigliero mujahideen, si mise alla testa di un manipolo di “studenti guerrieri”, facendo sprofondare l’Afghanistan nell’oscurantismo della sharia e in una guerra senza via d’uscita contro gli Stati Uniti. Il sentimento di amicizia verso Osama bin Laden e la ferrea difesa dei valori della Pashtunwali, secondo la quale un ospite era sacro e non doveva essere ripudiato, condannò il paese ad un ennesima ed interminabile lotta contro un invasore straniero. Il Mullah Omar aveva una notevole esperienza sul campo, tuttavia non godeva dell’eco mediatico del suo amico saudita e del vice Ayman al-Zawahiri. Effettivamente in molti sostenevano come il contributo di Omar alla guerra contro gli infedeli fosse stato simbolico, funzionale unicamente al consolidamento del fronte talebano, cosa che bin-Laden, da solo, non sarebbe riuscito ad ottenere. Per Washington, il leader afghano barbuto e senza un occhio era semplicemente un uomo rozzo, rurale, primitivo e ignorante, mentre su al-Qaeda pesava la responsabilità tattico – strategica delle operazioni1.

Dopo anni di silenzio e la disfatta militare, il Mullah Omar tornò alla ribalta delle cronache grazie ad una presunta volontà di trattare la pace con il governo afghano, così da scongiurare lo sgretolamento definitivo dell’Afghanistan. Su questo proposito in molti hanno espresso delle perplessità poiché lo schivo Omar rimase sempre a debita distanza dagli affari politici. A tessere le fila erano i suoi fidati emissari come il Mullah Mohammad Rabbani e Akhtar Mohammad Mansour veri detentori del potere decisionale e amministrativo2.

Nel 2015, il governo di Ashraf Ghani recapitò ai media la notizia ufficiale della morte del capo talebano per cause naturali. La voce non ricevette alcuna smentita alimentando la leggenda secondo la quale per alcuni afghani il Mullah Omar non fosse mai esistito3. L’informazione successiva fu però ancor più sconvolgente poiché riportava che l’Emiro fosse morto già due anni prima, e che il fatto fosse stato nascosto per timore di spaccature interne tra i capi guerriglieri afghani. Al pari di un monarca di Ancien Régime, la dipartita del capo afghano innescò un duro scontro per la sua successione sebbene, la shura unita di Quetta (composta da 200 membri), avesse già designato come erede Akhtar Mohammad Mansour (foto sotto). Tra i primi ad avallare la nomina di Mansour fu proprio il capo di al-Qaeda, al-Zawahiri consapevole che una divisione all’interno del fronte afghano, avrebbe favorito la crescita dell’ISIS tra le fazioni indecise. Il dottore egiziano pubblicò addirittura un video nel quale consacrava l’Emirato stabilito da Omar come primo ed unico esempio di stato islamico legittimo dai tempi dell’Impero Ottomano4.

Le voci contrarie all’elezione di Mansour arrivarono proprio dall’interno, sia tra alcuni capi dei guerriglieri, sia dalla stessa famiglia di Omar, ed in particolare dal figlio, Mullah Yaqoob, sebbene ancora giovane e privo di esperienza. Lo scetticismo di Yaqoob fu abbracciato per pura convenienza da Qayyum Zakir, ex detenuto di Guantanamo il quale, dopo il suo ritorno in Afghanistan, divenne uno dei capi militari più influenti del paese.

Il dibattito sulla legittimità dei successore era evidentemente connesso ai programmi di pace per i quali nessuno sembrava volersi impegnare veramente. In seguito, le ipotetiche trattative avviate dal Mullah Omar furono ampiamente smentite, più veritiere erano invece le affermazioni circa una rinuncia da parte del capo talebano alla pianificazione di qualsiasi offensiva militare5. Il Mullah Omar restava un importante leader carismatico, ma nulla di più: dal 2001, una conveniente latitanza lo aveva fatalmente allontanato dalla prima linea, dai suoi uomini più fidati e da ogni dibattito decisionale. Un altro potenziale avversario di Mansour era Sirajuddin Haqqani, figlio di Jalaluddin Haqqani, influente fondatore della famigerata “Haqqani Network” responsabile della maggior parte di attentati contro il governo afghano e le forze della coalizione. Mansour riuscì però ad ingraziarsi il suo favore, nominandolo responsabile delle operazioni militari dei talebani. Con l’approvazione di Zakir, il consenso di Yaqoob e l’alleanza di Haqqani, il neo eletto Emir al-Mu’minen Mansour revocò ogni approccio diplomatico con il governo di Kabul, infiammando lo spirito dei talebani i quali avrebbero “continuato la loro jihad fino alla creazione di un sistema islamico. Il nemico, con le sue trattative di pace e la sua propaganda, sta cercando di indebolire il jihad. Se noi siamo disuniti Allah non è contento e a goderne saranno solo i nostri nemici. Noi stiamo combattendo da 25 anni e non dobbiamo abbandonare il nostro impegno”6.

Il nuovo Mullah, contrariamente al suo predecessore, aveva da subito mostrato una maggiore dimestichezza con gli strumenti della politica, usando il suo potere persuasorio e in alcuni casi anche il ricatto: “Most observer have concluded that Mullah Mansour used cooption, appeasement and extortion in his quest to become the supreme leader after the death of Mullah Omar”7. L’entourage di Mansour rivelò un’inattesa energia, fatta di violenza, usurpazioni e ingiustizie alle quali l’esercito afghano doveva rispondere.

Ripercussioni militari e il ruolo di Al-Qaeda

La nomina di Sirajuddin Haqqani a comandante del braccio armato ebbe forti ripercussioni sull’operato dei talebani. La rete di Haqqani, connivente con l’ISI (Inter Service Intelligence) pakistano, beneficiava di numerosi uomini, finanziatori e un discreta padronanza tecnologica8. Il gruppo di Sirajuddin era indubbiamente il più attivo in Afghanistan, non solo perché prossimo all’intelligence di Islamabad, ma anche grazie al supporto di al-Qaeda. Al contrario, dal 2001, gli sparuti gruppi di talebani avevano ridotto la loro capacità offensiva, soprattutto nei confronti dell’esercito afghano con il quale preferivano eludere gli scontri diretti. Dal 2014 aumentarono invece gli attacchi contro i cosiddetti “soft-targets”, in particolare nella capitale. Secondo le stime dello UNAMA (United Nations Assitance Mission in Afghanistan” solo nel 2014 le morti tra i civili salirono a 10.548, “the highest on record in a single year with particular increase in casualities among women and children”. Il secondo gruppo operativo, al fianco di Mansour, erano i talebani del Mullah Mohammad Rassul estranei però a rapporti con organizzazioni potenti come Haqqani o l’ISI del Pakistan10.

Al-Qaeda, anch’essa reduce da un periodo incerto dopo la morte di bin Laden, aveva ripreso a funzionare secondo un modulo diverso, elaborato dalla mente di al-Zawahiri propugnatore di una frammentazione dell’organizzazione a favore di tanti piccoli gruppi operanti in tutto il mondo. La parabola di al-Qaeda in Afghanistan era discendente, travolta dalla percussione militare alleata: secondo una stima del Dipartimento della Difesa americano, gli operativi rimasti sul territorio raggiungevano appena le 100 unità sparpagliati tra le storiche roccaforti di Kunar e Nuristan ad est, Zabul e Ghazni a sud e nelle provincie di Khost, Paktia e Paktika. L’opinione dei vari gruppi talebani sulla presenza di al-Qaeda, fu sempre vissuta in modo contradditorio: da un lato erano visti come la vera causa della sconfitta, mentre dall’altro un male necessario poiché garantivano un costante flusso di denaro nelle loro casse11. Oggi, ancor più di ieri, Ayman al-Zawahiri è obbligato a rafforzare la sua posizione nelle province afghane, soprattutto in funzione dell’accesa rivalità con lo Stato Islamico. Il titolo ricoperto prima dal Mullah Omar e poi dai suoi successori - Emir al-Mu’minen o Emiro dei Fedeli – andava, di fatto, in contrapposizione con quello di Califfo di al-Baghdadi, giudicato presuntuoso, illegittimo e contestato da buona parte della comunità islamista. Non solo: dal punto di vista territoriale l’Emirato talebano fondato da Omar restava l’unico ad essere riconosciuto unanimemente come tale e, sebbene meno grandioso del Califfato dell’ISIS, beneficiava senz'altro di un primato più antico12. Questi dati giocavano a favore di al-Zawahiri sia da un punto di vista politico, sia religioso. Anche nel campo dell’etica terrorista, l’anziano capo di al-Qaeda volle dare una lezione al giovane al-Baghdadi richiamandolo al sacro valore della Bay’ah, o alleanza, cosa che, guarda caso, lo sceicco dell’ISIS gli aveva negato.

Nonostante le argomentazioni di al-Qaeda e il pericolo di una guerra intestina, lo Stato Islamico, già prima della dichiarazione ufficiale della morte del Mullah Omar, aveva iniziato a tessere la sua tela per impadronirsi di alcune aree dell’Afghanistan. La morte del Mullah Omar aprì una breccia, ma il governo del Mullah Akhtar Mohammad Mansour l’allargò in modo irreparabile: il vuoto di potere, le rivalità interne e il disaccordo sulla successione diedero il via ad una cospicua migrazione di talebani nelle file dello Stato Islamico. Su Zawahiri pesava ancora l’accusa di aver opportunamente taciuto ai talebani la morte di Omar: “On the one hand, it is possible that he knew about the death of the Taliban leader, but could not divulge the information in deference to the Taliban’s leadership. But if that was the case, al Qaeda’s effort to use the authority of a dead man to delegitimize the Baghdadi’s self -style caliphate makes it complicit in the Taliban’s deceit”13.

Il 21 maggio 2016 l’intelligence americana annunciava ufficialmente la morte del Mullah Mansour, eliminato da una bomba sganciata da un drone (foto sopra). Questa volta non vi furono dubbi sulla vera data del decesso e per i guerriglieri afghani si prospettava un nuovo, preoccupante, vuoto di potere.

Mullah Akhundzada e l’ascesa dell’ISIS

Nel 2016, il passaggio di consegne tra un capo e l’altro fu meno tortuoso. L’accondiscendenza generale verso l’elezione del Mullah Haibatullah Akhundzada (foto a dx) era supportata da motivazioni di carattere religioso, ma anche perché il candidato era effettivamente il più affidabile tra i contendenti. Rispetto Mansour, il nuovo leader rispecchiava il temperamento umile e schivo di Omar: “Akhundzada […]is say to live a simple life in the truest Deobandi tradition”14. Una involuzione spirituale, ma non operativa che non distolse i talebani a pianificare una nuova campagna di attentati a Kabul e nelle altre province. Proprio perché soggetti alla scissione, le varie fazioni agivano per proprio conto, senza seguire una logica comune e per questo faticosamente controllabili. Dal 2015 l’ISIS si impose come un pericoloso e preponderante attore del multiforme scenario afghano. I primi seguaci dello Stato Islamico a contendere il primato ai talebani appartenevano all’ISIS Wilayat Khorasan il cui scopo era assoggettare la provincia del Nangarhar e dintorni. I militanti dell’ISIS scelsero la medesima strategia realizzata con il fronte di al-Nusra in Siria, arruolando nelle loro file i disillusi e gli scontenti che volevano, più di ogni cosa, la jihad ad oltranza contro gli “infedeli”. Non appena trapelò la notizia della morte del Mullah Omar, Abu Bakr al Baghdadi si propose addirittura come possibile sostituto giacché la sua immensa autostima faceva di lui “the rightful leader of the faithful”15. La visione dottrinale propugnata dallo Stato Islamico trovò terreno fertile nel biasimare i talebani poiché, secondo al-Baghdadi, essendo collusi con i Pakistani del Servizio Segreto non erano coerenti ai dettami “puri” della Jihad. In più, secondo la tradizione islamica, dopo la morte del primo Emir al-Mu’minin i suoi seguaci non erano vincolati ad alcun giuramento verso il suo successore e quindi potevano liberamente scegliere da che parte stare. Nel 2014 l’ISIS allacciò una fruttuosa relazione con l’organizzazione Therik-I Taliban Pakistan (TTP) unitamente a molti altri gruppi sparpagliati e desiderosi di affiliarsi allo Stato Islamico. Lo stesso anno il gruppo Beitullah Meshud Caravan – il cui nome consacrava alla memoria la vita di un terrorista accusato di aver ucciso Benazir Bhutto – giurò fedeltà ad al-Baghdadi via Twitter. Secondo gli analisti era evidente che l’ “ISIS likely aimed to expand its social control in Afghanistan through coercive means”16.

Alla luce di quanto sta accadendo in quest’ultimo periodo e del silenzio mediatico che avvolge l’Afghanistan è difficile immaginare quale possa essere il futuro dei talebani. La domanda che tutti si pongono è se effettivamente abbiano perso forza, o la loro guida si trasferisca ad organizzazioni “terze”, lontane dalla loro tradizione.

Quale possibile futuro?

Il 1° gennaio 2015 la NATO affidò nelle mani della Afghan National Defence and Security Forces la difesa del paese. Le truppe dell’ISAF si ritirarono definitivamente, mentre un congruo numero di soldati (circa 13.000) rimase come parte attiva dell’operazione Resolute Support, utile ad addestrare e migliorare la qualità dell’ANDSF. La partenza delle truppe NATO ha nuovamente dato coraggio i talebani i quali, però, hanno cambiato il loro modus operandi e purtroppo anche i loro obiettivi. Come abbiamo già sottolineato, nel 2015 sono aumentate le vittime tra i civili e in certe provincie le milizie del Mullah hanno riaffermato la loro presenza. A come stanno le cose il processo di pace appare una chimera e le condizioni avanzate dai talebani sono davvero inaccettabili. Il 23 gennaio 2016, a Doha, il portavoce del Mullah, Muhammad Naim Wardak ribadiva le pretese per un cessate il fuoco: esclusione dei leader del movimento dalla lista nera delle Nazioni Unite, liberazione immediata dei prigionieri, ritiro delle forze straniere, estensione della legge islamica, soppressione delle taglie o premi per chi faceva arrestare i militanti e la composizione di un governo ad interim. Il presidente afghano, Ashraf Gahni, sebbene incerto se accettare o meno alcuni punti, fu irremovibile sull’eventuale formazione di un governo a conduzione talebana e l’imposizione della sharia. Il governo americano con le Nazioni Unite rigettarono le richieste e per tutta risposta, alcuni mesi dopo, eliminarono Mansour mentre il presidente Barak Obama asseriva con orgoglio: “that the strike was a milestone effort effort in the US efforts to stabilise Afghanistan, while again asking Pakistan to deny terrorists a safe haven”17.

Il governo di Gahni non gode della fiducia necessaria per sostenere alcuna trattativa, al contrario ha diversi punti a sfavore – come la mancanza di una politica economica e una dilagante corruzione – a tratti rendono più accettabile la crudele rigidità dei talebani. L’unica realtà a rivestire un ruolo abbastanza decisivo è l’esercito nazionale afghano il quale, pagando un alto prezzo in termini umani, pone un argine alla resurrezione dei guerriglieri; la stessa politica della NATO segue fiduciosa questa direzione, supportando come può gli apparati militari e della sicurezza. I talebani non sono terroristi nel senso stretto del termine, sebbene il loro cambio di strategia abbia forzato gli Stati Uniti a sostituire il tipo di risposta: da Counterinsurgency a Counterterrorism. In questo, come per altro, la politica di Trump è chiamata a scelte molto difficili, tuttavia l’impressione generale è che per gli americani – come accadde dopo l’invasione sovietica – l’Afghanistan rimanga un paese da dimenticare il più in fretta possibile.

1 - Elias, Barbara. "The Legend of Mullah Omar." Foreign Affairs. 12 Feb. 2017. Web. 12 Feb. 2017. URL: https://www.foreignaffairs.com/articles/afghanistan/2015-09-01/legend-mu...

2 - Malaiz Daud, “The Future of Taliban”, CIDOB Policy Research Project, Barecelona Centre for International Affairs, June 2016

URL:http://www.cidob.org/en/publications/publication_series/stap_rp/policy_r...

3 - Sune Engel Rasmussen, “Taliban officially announce death of Mullah Omar”, The Guardian, July 30, 2015, URL:https://www.theguardian.com/world/2015/jul/30/taliban-officially-announc...

4 - JWMG Desk, “Implications Resulting from the Death of Mullah Moar, Leader of the Taliban Afghanistan”, ICT, 08/12/2016, URL: https://www.ict.org.il/Article/1870/implications-resulting-from-the-deat...

5 - Anthony H. Cordesman, “The Afghan Campaign and the Death of Mullah Omar”, Center for Strategic & International Studies, August 2, 2015. URL: https://www.csis.org/analysis/afghan-campaign-and-death-mullah-omar

6 - Ibidem, p. 2.

7 - The Future of Taliban, p. 4.

8 - Hanna Byrne, John Krzyzaniak, Qasim Khan, “The Death of Mullah Omar and the Rise of ISIS in Afghanistan”, Institute for the Study of War, August 17, 2015, p. 2, URL: http://www.understandingwar.org/backgrounder/death-mullah-omar-and-rise-...

9 - Cordesman, p. 7.

10 - Simta Tiwari, “Understanding Taliban and the Peace Process”, Indian Council of World Affairs, Issue Brief, 28 April, 2016. URL: http://www.icwa.in/pdfs/IB/2014/UnderstandingTalibanPeaceProcessIB280420...

11 - Lauren McNally, Marvin G. Weinbaum, “A Resilient Al-Qaeda in Afghanistan and Pakistan”, Middle East Institute, Policy Focus Series, August 2016, p. 8, URL: http://www.mei.edu/sites/default/files/publications/PF18_Weinbaum_AQinAF...

12 - Mendelsohn, Barak. "Al Qaeda After Omar." Foreign Affairs. N.p., 12 Feb. 2017. Web. 12 Feb. 2017. URL: https://www.foreignaffairs.com/articles/afghanistan/2015-08-09/al-qaeda-...

13 - Ibidem.

14 -. The Future of Taliban, p. 3.

15 - The Death of Mullah Omar, p. 5.

16 - Ibidem, p. 6.

17 - Kriti M. Shah, “Reconciling with the Taliban: The Good, The Bad and the Difficult”, ORF Observer Research Foundation, Issue Brief, June 2016, Issue n. 151, URL: http://www.orfonline.org/research/reconciling-with-the-taliban-the-good-...