Il caso Floyd e la condanna di Chauvin. La tecnica per immobilizzarlo è stata davvero fatale?

(di Avv. Marco Valerio Verni)
27/06/21

Mentre, in questi giorni, divampa l’ennesima polemica, in Italia, a seguito del mancato inchino, da parte di tutta la Nazionale di calcio, prima dell’inizio della partita contro il Galles, disputatasi lo scorso 20 Giugno, quale forma oramai stereotipata di manifestazione contro il razzismo e, quindi, di solidarietà verso il movimento “Black Lives Matter” (a parte l’ovvia considerazione che non occorra inchinarsi per proclamarsi “anti-razzisti”, e che forse, anche questo gesto andrebbe ricondotto “nei giusti binari”, per un fatale destino, è quantomeno singolare la coincidenza che, in orario pressoché concomitante al suddetto incontro di calcio, nei pressi della stazione ferroviaria di Termini, a Roma, accadeva che un agente di Polizia si trovava ad esplodere un colpo di pistola contro un ghanese, intento a girare liberamente tra la gente, brandendo un coltello e creando terrore tra i passanti), è stata emessa, proprio ieri, da parte del tribunale distrettuale di Hennepin (Minnesota), la sentenza che ha sancito il quantum della pena che l’ex agente di Polizia, Derek Chauvin, dovrà scontare, dopo la condanna lui inflitta lo scorso 21 Aprile, per l’omicidio dell’afro-americano George Floyd1: ventidue anni e mezzo.

Nel frattempo, all’indomani del giudizio di qualche settimana fa, i legali del suddetto avevano già presentato ricorso in appello e chiesto un nuovo processo, denunciando il fatto, innanzitutto, che al loro assistito sia stato negato un giudizio equo: giurati che non sarebbero stati debitamente isolati dal giudice; ipotetiche pressioni su quest’ultimo sia da parte degli avvocati dell’accusa che, soprattutto, da parte dell’opinione pubblica, quasi tutta a favore di un verdetto di colpevolezza; dubbi, ancora, sull’imparzialità di alcuni giurati, avendo, ad esempio, uno di essi, partecipato, lo scorso anno, al 57° anniversario della marcia su Washington.

Il punto cruciale su cui ha ruotato l’intera vicenda giudiziaria è stato quello riguardante la causa della morte, se essa cioè sia potuta dipendere dalle modalità dell’arresto effettuato e, in particolare, dalla tecnica applicata da Chauvin, o se, al contrario, possano essere intervenute altre cause.

Alla fine, ha prevalso la tesi dell’accusa, secondo cui George Floyd sarebbe morto per una asfissia, dovuta alla mancanza di ossigeno, sebbene, da una parte, una prima autopsia avesse escluso tale causa2 (evidenziando, comunque, la possibile interazione della manovra utilizzata da Chauvin con alcune pregresse condizioni di salute alterate di Floyd, quali problemi di ipertensione cardiaca e disturbi alle arterie coronarie) e, dall’altra, la difesa del poliziotto avesse tentato di dimostrare che, in realtà, potevano essere altre le cause del decesso, tra cui il monossido di carbonio proveniente dalla macchina della Polizia vicino alla quale era stato atterrato, rimasta accesa, l’uso di droghe ed alcuni problemi cardiaci preesistenti.

Non ha trovato spazio, parimenti, l’altro aspetto, sostenuto dalla difesa, secondo cui l’agente si sarebbe distratto a causa della folla che, nel frattempo, si era fatta sempre più minacciosa, e dalla quale, dunque, era anche preoccupato di doversi difendere.

La “knee-to-neck maneuver”

La domanda che in molti si sono posti, nei più svariati ambiti, è se la tecnica utilizzata dall’agente di Polizia in questione possa essere stata, di per sè, effettivamente la causa della morte di Floyd, al punto che, all’indomani di quel tragico accadimento, nacquero subito diversi dibattiti sull’opportunità o meno che, la suddetta, permanesse nel bagaglio tecnico di alcune forze di Polizia per le quali essa fosse consentita, ivi compresa quella dello stesso Dipartimento del Minnesota, nelle cui file era in forza l’agente accusato.

Alla suddetta (domanda), si tenterà, qui, di fornire una risposta, attraverso il parere di tre esperti, con la doverosa premessa che non si entrerà in altri discorsi, che pure poco c’entrerebbero, e che invece, da alcuni, sono stati anche evocati, come quello della “Police brutality”, o dell’aggravante razziale che sarebbe stata alla base di quella uccisione, a seguito della quale furono poi diverse le manifestazioni (per la verità, alcune di esse, anche molto violente) c.d. “antirazziste”, sia negli stessi Stati Uniti, capitanate dal già ricordato movimento “Black Lives Matter”, che in diverse altre parti del mondo (tra cui, immancabilmente, il nostro Paese);

Il primo di essi, è del professor Seth Stoughton, ex ufficiale di Polizia, attuale docente di diritto all’Università del Sud Carolina ed autore, peraltro, del libro "Evaluating Police Uses of Force": costui, proprio all’indomani della tragica uccisione di Floyd, in una intervista rilasciata alla CNN3 apparsa nei giorni immediatamente successivi a quel tragico evento, ebbe a dire che, effettivamente, la tecnica in questione, se mal applicata, poteva risultare veramente dannosa per colui che la subiva, identificando, al riguardo, tre modi, in particolare: “Il primo, è nel mettere il sospettato in posizione prona, ossia faccia a terra e mani incrociate dietro la schiena per un lungo periodo di tempo. Ciò, infatti, può portare alla c.d. asfissia da posizione. Una persona in tale situazione può ancora respirare, chiaramente, o parlare a scatti, ma non lo può fare per intero, al punto da perdere gradualmente l’ossigenazione e, di conseguenza, coscienza. Il secondo modo, è quello di porre eccessivo peso sul collo o sulla testa del fermato, dal momento che ciò potrebbe comportare la frattura dell’osso ioide o del rachide cervicale, a seconda dei casi. Da ultimo, tale tecnica dovrebbe essere applicata per lo stretto tempo necessario ad ammanettare il sospetto, e quindi non per chissà quanto tempo, monitorando, nel frattempo, le condizioni dello stesso che deve, comunque, star bene”.

Ora, nel caso specifico, il Dipartimento di Polizia di Minneapolis consente ai propri ufficiali di procedere a due modi nel condurre un arresto con tale tipo di tecnica, come specificato nel relativo manuale operativo: il primo, applicando una leggera pressione sul collo del soggetto fermato, con un braccio o con una gamba, facendo attenzione, naturalmente, a non bloccare le vie aeree; il secondo, invece, applicando una maggior pressione in maniera tale da far perdere coscienza, per qualche attimo, alla persona da arrestare, ma senza, chiaramente, ucciderla. Metodo, quest’ultimo, da utilizzare solo e soltanto nel caso ci si trovi davanti ad una persona molto violenta ed aggressiva, tale da non poter essere fermata in nessun altro modo.

Il secondo punto di vista è del maestro e campione di arti marziali Danilo Capuzi secondo cui “La tecnica in questione è una postura studiata per bloccare una persona (un malvivente, chiaramente), facendogli sentire un enorme dolore, proprio al fine di poterlo meglio controllare. Di certo, non limita l’afflusso di aria ai polmoni, né limita l’afflusso di sangue al cervello.

Essa permette totalmente il controllo della pressione, che avviene spostando davanti o dietro l’incidenza della coscia sulla nuca, facendo sì che venga scaricato maggior o minor peso sulla persona da controllare (si consideri che si può arrivare fino all’ottanta per cento del peso del corpo di colui che la applica).

Non è un caso, infatti, che l’operatore che la esegua debba avere almeno un piede a terra, per potersi facilmente rialzare. Tutte le posture che prevedono il controllo della persona a terra vanno eseguite tenendo posizioni che siano dinamiche, ossia facilmente mutabili (nel caso in esame, almeno sotto questi punti di vista, l’agente di Polizia sembra aver agito correttamente, sia perché era dritto e poteva guardare intorno, sia perché aveva, appunto, almeno un piede a terra).

Ora, nella knee-to-neck maneuver, il blocco avviene sulla nuca perché, in quella sede,come detto, provoca molto dolore, ma è diametralmente opposta da quella sulla trachea, per cui non ci può essere occlusione alla respirazione. Una pressione sulle cervicali non può ostruire la trachea. Il fatto stesso che Floyd chieda aiuto, lamentandosi, dimostra che poteva respirare, altrimenti non sarebbe riuscito a parlare. Una persona strangolata non riesce a parlare (sul punto, peraltro, lo stesso consulente medico legale dell’imputato, David Fowler, aveva affermato che il fatto stesso che Floyd potesse parlare e, comunque, lamentarsi, era la dimostrazione che non avesse le vie aeree ostruite: n.d.r.4).

L’errore del poliziotto, semmai, è stato quello di ignorare lo stato di malessere che Floyd ha cercato più volte di manifestargli: quella postura è la migliore, per tenere bloccata una persona. Se poi, in linea generale, la persona fermata prenda droghe o ci siano altre cause che potrebbero incidere sulla sua vita, quelli sono altri discorsi, ma esulano dalla sicurezza della suddetta”.

Sulla non pericolosità in sé della tecnica utilizzata sembra concordare anche il terzo degli esperti consultati, ossia il fondatore del Gruppo di Intervento Speciale dei Carabinieri, meglio conosciuto come Comandante Alfa, il quale ha dichiarato che: "Nel caso di Floyd, chiaramente non so cosa possa essere accaduto, ma la tecnica in questione non è, di per sé, letale. La applichiamo anche noi, oltre che diverse altre forze di Polizia estere. Serve ad immobilizzare una persona a terra, il tempo di perquisirla e bloccarne le mani con le stringhe ai polsi ed è tutto finito".

Conclusioni

Da quanto sopra, dunque, sembra potersi concludere che, la tecnica utilizzata da Chauvin ai danni di Floyd, non sia, di per sè, ed in via generale, letale, nè, probabilmente, lo sarebbe stata nel caso specifico, ove fosse stata correttamente applicata non tanto nella postura (che, dai video rinvenuti in rete, sembra corretta), quanto nel “timing”, ossia nel tempo per il quale la suddetta è durata. Come detto, infatti, se essa (tecnica) possa considerarsi molto efficace per immobilizzare un energumeno, deve però essere applicata in maniera corretta (per la qual cosa, naturalmente, è anche importante il necessario addestramento e, poi, allenamento) e per il giusto tempo: ossia, qualche secondo, per poi, una volta messo in sicurezza il soggetto fermato, porlo subito in altra posizione “di sicurezza”.