Quanta ipocrisia sul caso Brusca

(di Avv. Marco Valerio Verni)
03/06/21

Sì, a quanta ipocrisia occorre assistere, in queste ore, a seguito della scarcerazione di Giovanni Brusca, boss mafioso, fedelissimo del capo dei capi di Cosa Nostra, Totò Riina, divenuto poi collaboratore di giustizia, dopo aver ammesso il suo ruolo, tra l’altro, nella tragica strage di Capaci, dove persero la vita, come noto, il giudice Giovanni Falcone, la di lui moglie, ed alcuni agenti della sua scorta (la cui ricorrenza, peraltro, è stata celebrata qualche giorno fa) e nella terribile uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo.

E questa ipocrisia, naturalmente, viene espressa, in particolare, da certa parte del mondo politico, attento molte volte, ormai, all’apparenza, alla corsa ai “like” sui social network, ai vuoti proclami, piuttosto che alla sostanza delle cose; a correre dietro alla notizia del momento, lamentandosi di un qualcosa che non va o che non è andato, dimenticandosi di dover essere lui - quel mondo - a guidare, decidere, prevenire, correre ai ripari e ad essere anche, dunque, il primo responsabile quando qualcosa “non vada” o “non sia andato”.

Che l’ex boss di Cosa Nostra sarebbe stato liberato in questi giorni, infatti, era cosa nota da tempo, ma, d’altronde, lo prevedeva il meccanismo a cui costui aveva acceduto nel momento in cui, diversi anni fa, aveva deciso di collaborare con la giustizia.

Sono comprensibili - intendiamoci - le dichiarazioni di sdegno dei familiari delle vittime e delle persone comuni, ci mancherebbe, e su di esse ritorneremo.

Ma non sembrano esserlo quelle, appunto, di alcuni politici: questi ultimi, infatti, dovrebbero agire senza aspettare il clamore mediatico e, comunque, dovrebbero agire. Ma ci hanno abituato alle parole, spesso, e nulla più. E all’incoerenza.

Qualche settimana fa, ad esempio, la nostra Corte Costituzionale si era espressa sulla importantissima questione dell’ergastolo ostativo, che è tema strettamente collegato a quello di cui si discute qui, affermando che esso “facendo della collaborazione l’unico modo per il condannato di recuperare la libertà” fosse “in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo”, stabilendo “di rinviare la trattazione delle questioni a maggio 2022, per consentire al legislatore gli interventi che tengano conto sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi”1.

Eppure, al di là di qualche commento, non si ha ancora idea di come si voglia intervenire su questa delicata materia, a fronte di una sua annunciata incostituzionalità. Eppure, i segnali di allarme, in tal senso, già vi erano stati, se solo si pensi ad alcune precedenti sentenze, tanto della nostra stessa Corte di legittimità2, tanto della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo3.

Per i non esperti della materia, tale istituto (quello dell’ergastolo ostativo), nato proprio dalle idee di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, all’inizio degli anni 904, riguarda il particolare tipo di regime penitenziario5 che, a differenza di quanto accade per gli “ergastolani comuni”6, esclude dall’applicabilità dei benefici penitenziari (liberazione condizionale, lavoro all’esterno, permessi premio, semilibertà), per quel che ci occupa, gli autori di reati particolarmente riprovevoli quali i delitti di criminalità organizzata, terrorismo, eversione, ove il soggetto condannato non collabori con la giustizia ovvero tale collaborazione sia impossibile o irrilevante.

Un istituto che, da allora, ha permesso, per l’appunto, la collaborazione con la giustizia di diversi mafiosi, che hanno contribuito così a far comprendere agli investigatori meccanismi interni a Cosa Nostra (e non solo), intrecci con il mondo politico, istituzionale, sociale e finanche massonico, con tanto di nomi e cognomi anche di persone note, che, diversamente, difficilmente si sarebbero scoperte o, magari, che si sarebbero conosciuti in (ulteriore) ritardo, quando magari sarebbe stato tutto inutile perché già tutto mutato.

Intendiamoci: non si intende, qui, santificare una categoria di persone che, comunque, si sono macchiate di crimini efferati, ma, tra luci ed ombre, pare indubbio il contributo generalmente fornito da costoro nel contrasto alle mafie.

Così come è chiaro che, in alcuni casi, la scelta di collaborare, appunto, con la giustizia, sia dettata, per alcuni, da motivi “opportunistici”, ossia legati, all’unica via loro riconosciuta per vincere la perpetuità della pena.

Ma in una guerra - e quella contro le mafie lo è certamente - occorre, in alcuni momenti, essere cinici e guardare all’obiettivo: d’altronde, la stessa legge - che potrebbe risultare, per certi versi, non giusta, ma per altri opportuna - non ha interesse ad accertare l’animus di chi decide di “fare il salto della barricata” e l’accesso ai benefici penitenziari o alla liberazione condizionale è riservato ai collaboratori solo quando le loro rivelazioni siano tali da evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero il concreto aiuto reso alla polizia o all’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi sia decisivo per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati7.

Fermo quanto detto, è altresì vero che, per rimanere all’animus di cui sopra, alcuni altri, invece, abbiano probabilmente compiuto una scelta consapevole e genuina, non scevra da pericoli, se solo si consideri che, a fronte della suddetta, si mettono a rischio soprattutto i familiari rimasti nel mondo esterno, esponendoli alle ritorsioni più estreme.

Senza considerare le altre difficoltà cui, questi ultimi, che non sempre sono “partecipi” delle azioni del congiunto - ed anzi, sembrerebbero essere, in alcuni casi, i primi promotori del “cambio di direzione” di costui - si possono trovare di fronte: dalla ricerca di un lavoro alla possibilità di studiare (e la conoscenza, come si dice, è sovente la prima arma contro la criminalità), ad altro.

Orbene, è chiara l’urgenza di dover correre ai ripari, stante il “richiamo” della Corte Costituzionale di cui sopra, ma ciò va fatto nel giusto modo, tenendo certamente conto, cioè, dei punti evidenziati dalla suddetta, oltre che, come pur accennato, dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ma senza sgretolare, il sistema normativo del c.d. doppio binario sopra richiamato, ivi compreso il c.d. 41 bis8 (o carcere duro), che, come detto, ha significato tanto in questa difficile e sempre cangiante lotta senza quartiere e, soprattutto oggi, senza confine.

Un anno (questo è il lasso temporale concesso dalla Consulta) trascorre in fretta e la materia va ragionata bene: il paradosso potrebbe essere che, ove si smantellasse il sistema vigente, o vi si mettesse mano in maniera improvvida, infatti, si potrebbe finire comunque con il permettere a chi si sia macchiato dei gravi delitti di cui sopra di poter accedere ai menzionati benefici penitenziari senza, di contro, aver collaborato attivamente, come invece ora richiesto nei termini detti9.

E veniamo alle famiglie delle vittime: vicinanza. Totale. Non si può che essere partecipi del dignitoso dolore e dello sgomento, che è quello di tutta la gente per bene.

Non si possono non ricordare le parole della sorella dello stesso Falcone, Maria, secondo cui "Umanamente è una notizia che mi addolora, ma questa è la legge, una legge che peraltro ha voluto mio fratello e quindi va rispettata” e far suo l’auspicio “che magistratura e le forze dell'ordine vigilino con estrema attenzione in modo da scongiurare il pericolo che torni a delinquere, visto che stiamo parlando di un soggetto che ha avuto un percorso di collaborazione con la giustizia assai tortuoso"; o quelle di Nicola Di Matteo, fratello del piccolo Matteo, ricordato all’inizio di questo scritto, secondo cui “Brusca è fuori per una legge dello Stato, una legge che ha voluto Giovanni Falcone, il magistrato che proprio Brusca ha fatto saltare in aria a Capaci. Io sono abituato a rispettare le leggi e le sentenze dei giudici e anche questa volta rispetto la decisione ma non chiedetemi di condividerla o di accettarla. Non ce la faccio il dolore è troppo grande”; o l’amara disperazione della vedova di Antonio Montinaro, Tina Martinez, per la quale "Lo Stato oggi mi ha preso in giro, sono sconfortata e incazzata nera, a distanza di 29 anni non so ancora la verità su Capaci e chi ha schiacciato il bottone e distrutto la mia vita torna libero. Non è servito a nulla quanto è successo a Palermo. Ho bisogno di uno Stato che ci tuteli non che liberi i criminali. Sono amareggiata per tutte quelle persone che una settimana fa erano a Palermo a prenderci in giro, sapevano che Brusca sarebbe uscito e sono venuti lo Stesso. Spero che il prossimo abbiano la dignità di non presentarsi a Palermo per commemorare Capaci"; a cui si aggiunge quella di Giovanni Paparcuri, autista del giudice Rocco Chinnici e unico sopravvissuto alla strage del 29 luglio 1983, tra i più stretti collaboratori di Giovanni Falcone, secondo cui "Proprio perché siamo in uno Stato di diritto e se la legge prevede che a questi assassini, poi divenuti collaboratori, spettano dei benefici, da buon soldato, ma a malincuore ne prendo atto e me ne faccio una ragione, anche se è molta dura... durissima"10.

Ma, tornando al concetto di guerra, più sopra accennato, occorre rimanere lucidi, e distinguere il piano umano ed etico (sulle cui valutazioni si è tutti unanimemente concordi) da quello tecnico-giuridico: sul caso specifico, d’altronde, sono intervenuti anche dei magistrati, impegnati anch’essi in prima linea contro la lotta alle mafie, che hanno sottolineato alcuni punti11.

Tra di essi, il procuratore di Messina Maurizio de Lucia, secondo cui “La legge sui collaboratori di giustizia si è rivelata uno strumento fondamentale nella destrutturazione delle mafie. Giovanni Falcone, che ne è stato l'ideatore, aveva ben presenti i costi sul piano della sofferenza per le vittime dei mafiosi che l'approvazione di una normativa del genere avrebbe comportato. Ma aveva anche chiaro quali danni alla mafia avrebbero e hanno fatto le collaborazioni di alcuni esponenti di vertice di Cosa nostra", aggiungendo che "I fatti hanno dimostrato che Giovanni Falcone aveva ragione e che questo meccanismo ha funzionato e funziona. Del resto sono state proprio le collaborazioni con la giustizia a consentire, non solo di identificare gli autori di alcuni dei più efferati fatti criminali della storia d'Italia, ma anche e forse, soprattutto, di consentire di indagare sui livelli di cointeressenze che Cosa nostra ha con i mondi dell'imprenditoria, delle professioni e della politica". Concludendo che "Del resto sistemi premiali per chi collabora con la giustizia sono presenti in tutti gli ordinamenti democratici anche in quelli che non prevedono un regime penale severo come il nostro. E' ovviamente più che comprensibile il turbamento di chi ha visto i propri familiari uccisi dall'azione criminale di questi individui. Resta il fatto che la legislazione sui collaboratori di giustizia è irrinunciabile".

Ad esso, ha fatto eco l’ex presidente del senato ed ex procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso, per il quale "Non c'è nessuna forma di buonismo o perdono da parte mia nei confronti di Giovanni Brusca: oltre a tutto ciò che sapete, agli omicidi e alle stragi in cui ho perso colleghi e amici, avrei anche motivi strettamente personali per serbare rancore. Lui e altri collaboratori hanno raccontato, tra gli altri, due episodi che mi riguardarono direttamente: l'organizzazione di un attentato nell'autunno del 1993 che doveva farmi saltare in aria mentre andavo a trovare mia suocera a Monreale e la pianificazione del rapimento di mio figlio. Il dolore e la rabbia delle vittime e dei loro familiari lo comprendo e lo rispetto nel profondo. Eppure non vedo scandalo nella notizia di ieri, peraltro nota e attesa da molti anni" Aggiungendo poi: “Mi spaventa l'indignazione di molti politici che di codice penale e di lotta alla mafia capiscono ben poco. Se davvero facessero quello che dicono, ovvero ridurre gli sconti per chi collabora con la giustizia, diminuirebbe l'incentivo a pentirsi. Se a questo aggiungiamo che si sta cercando di limitare l'ergastolo ostativo, e lavorerò affinché questo non avvenga, potremo anche dichiarare chiuso il capitolo del contrasto a Cosa nostra. Al contrario, servono sconti di pena forti per chi aiuta lo Stato e prospettiva di ergastolo senza sconti per chi non collabora”.

Da ricordare, in tale contesto, anche le parole di un’altra familiare di una vittima eccellente, Caterina Chinnici, europarlamentare e figlia di Rocco, promotore del pool antimafia ucciso da Cosa nostra il 29 luglio del 1983, secondo la quale "È stata applicata una legge che ha portato dei risultati ma sul cui rapporto costi-benefici per lo Stato nella lotta alla mafia forse andrebbe oggi riaperta una riflessione in chiave attualizzata. È una legge vigente, ma naturalmente sotto il profilo umano questa consapevolezza convive con quel dolore senza fine che per me, come per tutti gli altri parenti delle vittime di mafia, torna oggi a farsi sentire con tutto il suo enorme peso".

Insomma, occorre che lo Stato torni a considerare la lotta alle mafie come prioritaria, ma per far ciò occorre, altresì, un decisore politico in grado di affrontare le sfide vecchie e nuove, senza paura e senza mezzi termini.

L’attuale classe politica, che purtroppo ha già mostrato, in molti casi, evidenti limiti, è chiamata ad una sfida importantissima: perché, al di là dei proclami, c’è una guerra che non ammette tregua, distrazioni, perdite di tempo, ma necessita di prese di posizione forti, concrete, coraggiose e coerenti.

Quanto alle famiglie delle vittime, i loro morti, che sono quelli di tutta la brava gente, hanno fatto sì che si raggiungessero importanti risultati contro questo odioso fenomeno che la parte sana della società civile aborre: occorre ribadirlo a gran voce, e stringersi a costoro, soprattutto in questo momento.

Lo stesso Falcone, conscio di poter essere, un giorno, ucciso, evidentemente, ben sapeva che, in un amaro e beffardo paradosso, avrebbe potuto far ritrovare, un domani, la sua stessa famiglia a dover piangere la scarcerazione dei suoi assassini, ove si fossero “pentiti”: ma proprio in ciò risiede l’ulteriore prova dell’enorme eroismo di questa figura che, insieme agli altri martiri (tutti parimenti importanti), caduti sul campo per tutti noi, costituiscono un esempio da onorare ed a cui guardare con umile ammirazione e fattiva concretezza.

2 Si vedano, ad esempio, la sentenza n. 135/2013 o la n. 253/2019.

3 Si vedano, ad esempio, la sentenza resa nel 2008 nel caso Kafkaris c. Chypre, o quella resa nel 2013 nel caso Vinter et autres c. Royaume-Uni o, da ultimo, quella che più ci riguarda, emessa nel 2019 nel caso Viola c. Italia.

4 D.L.152/1991 (convertito in L. 203/1991).

5 Tale istituto è previsto dall’art. 4-bis dell’attuale Ordinamento Penitenziario.

6 Ossia coloro che non abbiano commesso un reato di prima fascia, afferente cioè a criminalità organizzata, terrorismo, eversione, ai quali è consentito richiedere la liberazione anticipata (ossia la riduzione di pena di 45 giorni a semestre di pena scontata se il detenuto ha dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione ex art. 54 ord. pen.) e, secondo una logica di progressione trattamentale, volta alla rieducazione del reo, accedere ai permessi premio, al lavoro all’esterno, alla semilibertà e, da ultimo, alla liberazione condizionale.

7 Vedasi l’art. 58-ter dell’Ordinamento Penitenziario.

8 Vedasi la legge 10 ottobre 1986, n. 663 (c.d. Legge Gozzini).

9 A tal riguardo, si veda anche quanto dichiarato dall’attuale consigliere del C.S.M., Nino Di Matteo: "Giovanni Falcone fu un uomo di Stato che a fronte di un fenomeno così complesso come Cosa nostra riuscì a concepire una reazione altrettanto organizzata e forte, sia da giudice a Palermo e con altrettanta efficacia da direttore degli Affari penali a Roma. Dove concepì un sistema normativo e ispirò una normativa approvata tra il 1991 e il 1992, che purtroppo oggi, anche in esito di alcune sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo e della nostra corte costituzionale, stanno smantellando. (…)si stanno realizzando degli obiettivi che erano quelli propri anche di chi quell'attentato organizzò ed eseguì. Tra questi l'abolizione dell'ergastolo inteso veramente come fine pena mai. (…) Ci sono molti di quei mafiosi che hanno fatto le stragi che sono ancora vivi, hanno dei seguaci in Cosa nostra e sperano anche di potere uscire dal carcere, quanto meno di potere ottenere dei benefici come la liberazione condizionale. C'è il rischio che qualcuno ha partecipato alla stragi di Capaci e di via D'Amelio, e che è stato arrestato già la prima volta tra la fine del 1992 il 1993, tra un anno, pur non avendo intrapreso un percorso di di collaborazione con la giustizia, possa accedere a dei benefici penitenziari. Io credo che sia come uccidere un'altra volta Falcone e tutte le altre vittime delle stragi". (Fonte: https://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/di-matteo-falcone-ergastolo-0...)

10 Dichiarazioni tratte da: https://palermo.repubblica.it/cronaca/2021/06/01/news/brusca_maria_falcone_tina_montinaro_indignate_per_la_scarcerazione-303697278/: a questo link, possono esserne lette diverse altre, cui, parimenti, non si può che umanamente aderire.

11 Ibidem.

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