8 settembre: la resa ignominiosa

(di Tiziano Ciocchetti)
08/09/20

Dopo 77 anni dalla firma dell’armistizio di Cassibile, ovvero dalla accettazione di una resa incondizionata finalizzata ad un vero e proprio cambio di fronte, ma che si trasformò in un disastro generalizzato (da molti definita come la morte della Patria) in quanto gli ordini, pur da tempo preparati, non giunsero mai o comunque non in tempo utile, ai Comandi che si trovarono senza alcuna direttiva operativa, c’è ancora molto da scoprire.

Chi si occupa di ricerca storica ben conosce la difficoltà dell’accedere agli archivi nazionali tuttavia, in questi ultimi anni, sono stati liberalizzati quelli anglo-americani, in special modo per quanto riguarda le trattative che portarono alla stipula dell’armistizio. Queste fonti consentono di gettare una luce differente su eventi che la storiografia nazionale – e ufficiale – ha spesso cercato di mistificare.

Ricordiamo ai lettori che nel Ventennio Fascista lo Statuto Albertino (in vigore dal 1848) non era stato soppresso, quindi il Re Vittorio Emanuele III deteneva, secondo Statuto, il Potere esecutivo. Ma il Partito Fascista faceva comodo alla monarchia sabauda che, come avvenuto più volte in epoca risorgimentale, utilizzava gli schieramenti politici come capri espiatori, conferendo deleghe a questo o quel presidente del consiglio sacrificabile al momento.

Così era stato per Fascismo, infatti il Duce (Dux) divenne tale grazie al conferimento da parte del Re, in data 11 giugno 1940, della delega regia del Comando della Forze Armate operanti su tutti i fronti, divenendo, per quanto previsto dal R.D. n. 1415 dell’8 luglio 1938, comandante supremo e assumendo tutte le responsabilità, politiche e militari, della condotta della guerra.

La caduta del regime fascista avvenne per ritiro di tale delega, a seguito delle dimissioni di Mussolini il quale, nonostante la sfiducia espressa dal Gran Consiglio (Ordine del giorno Grandi) il 25 luglio 1943, non potevano venire accettate da parte del Re a meno che non vi fosse già pronto un sostituto che volesse assumere l’incarico di capo del Governo, nel caso specifico il Maresciallo Badoglio.

È altresì vero che il Duce, secondo la testimonianza dell’allora capo di stato maggiore, generale Ambrosio, era intenzionato ad uscire dall’alleanza con la Germania, e ne voleva dare comunicazione a Hitler nel corso dell’incontro a Feltre del 19 luglio 1943.

Tuttavia Mussolini, all’ultimo momento, non fu in grado di affrontare l’argomento rimanendo soggiogato dal Fuhrer che parlava di controffensive e di armi segrete che avrebbero ribaltato la situazione su tutti i fronti.

Sull’operato del capo del Governo, comunque, si ergeva la figura del Re, senza la cui approvazione, nessuna iniziativa poteva essere presa che fosse in contrasto con i suoi piani.

I piani del Sovrano sabaudo contemplavano l’utilizzo di un brillante ufficiale, il generale Giuseppe Castellano (foto apertura e seguente), attore (inconsapevole) di un meschino “gioco” politico. Egli infatti era convinto di negoziare il passaggio dell’Italia nelle file degli Alleati, non certo di “negoziare” un trattato di resa incondizionata.

Castellano fu vittima di un “inganno strategico”, in quanto era convinto di dover pianificare con i Comandi anglo-americani un aviosbarco sugli aeroporti intorno a Roma, ad opera di una divisione aerotrasportata che avrebbe dovuto occupare i punti nevralgici della capitale con il supporto delle truppe italiane. In pratica, al generale Castellano, venne prospettata la possibilità che l’Italia sarebbe stata padrona del proprio futuro, se le sue forze armate avessero dato un contributo significativo per sconfiggere la Germania nazista.

Su indicazione di Ambrosio, Castellano insistette perché le forze alleate compissero uno sbarco anfibio alle foci del fiume Tevere (probabilmente si cercava di sapere in anticipo le direttrici d’attacco). Nella visione di Castellano permaneva l’idea di uno sforzo sinergico con gli anglo-americani (e di un Comando indipendente italiano) al fine di occupare Roma e cacciare quindi i tedeschi dal territorio nazionale.

La realtà dei fatti cominciò ad essere palese quando giunse a Roma, portata dal maggiore Luigi Marchesi, la documentazione armistiziale.

Nella Capitale, una volta reso pubblico l’Armistizio, i tedeschi, già al corrente da tempo del voltafaccia italiano, vennero respinti a nord di Roma dalle truppe della ricostituita (era stata annientata in Nordafrica) divisione Ariete.

Un episodio singolare è quello del generale Solinas, comandante della divisione Granatieri di Sardegna, che apprese la notizia dell’armistizio ascoltando la radio di amici: non si perse d’animo, prese in mano la situazione e al comando delle proprie truppe costrinse i tedeschi a ritirarsi.

I reparti della Granatieri e dell’Ariete combatterono in prima linea senza risparmiarsi, sino all’eroica resistenza si Porta San Paolo del 10 settembre.

Se ci fosse stata volontà politica i combattimenti nella capitale si sarebbero potuti risolvere a favore delle truppe italiane.

Sintomatico del collasso politico/militare della Nazione è il destino a cui andava incontro la nostra flotta. La Regia Marina, i cui Comandi erano ignari della stipula dell’armistizio, si stava radunando al largo delle coste Toscane per attaccare la flotta alleata in procinto di sbarcare a Salerno (avvenuto il 9 settembre): in ottemperanza alle clausole dell’armistizio l’intera flotta si dovette consegnare, intatta, al precedente nemico a Malta.

Volendo fare un collegamento (anche un po' forzato) con i tempi odierni, tre mesi fa il governo ha venduto due fregate (Spartaco Schergat e Emilio Bianchi) all’Egitto e la Marina lo ha saputo all’ultimo momento, quando già erano state varate e le bandiere di guerra acquistate.

Madrine alle due cerimonie di varo? Le figlie degli eroi, Medaglie d’Oro al Valor Militare, Giuseppe Aonzo ed Emilio Bianchi.

Foto: web / Marina Militare (nell'ultima immagine Elisabetta Bianchi, figlia dell’eroe scomparso nel 2015 a cui era stata intitolata la decima FREMM)