Ha ancora senso parlare di servizio di leva?

(di Enrico Baviera)
15/08/18

Il tema della riproposizione del servizio di leva si è recentemente imposto sul dibattito nazionale dopo le dichiarazioni del ministro dell’Interno, Matteo Salvini, tese a reintrodurlo magari in forma ridotta rispetto al passato, e quelle della ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, che si è invece espressa al riguardo in termini tutt’altro che positivi, bloccando sul nascere la proposta.

Difesa Onine ne ha parlato con il gen. Antonio Li Gobbi, ufficiale con una vasta esperienza nazionale e internazionale.

Li Gobbi ha infatti partecipato a interventi ONU in Siria e Israele e NATO in Bosnia, Kosovo e Afghanistan (come Sottocapo di Stato Maggiore Operativo di ISAF a Kabul nel 2005-2006). È stato, tra l’altro, Capo Reparto Operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze (COI), Direttore delle Operazioni presso lo Stato Maggiore Internazionale della NATO a Bruxelles, Comandante e Ispettore del Genio.

Da quando ha lasciato il servizio, è molto attivo per i suoi commenti e articoli su testate specializzate, e per partecipare a conferenze su argomenti di attualità geo-politica e militare.

Generale, assistiamo in quest’afa ferragostana a un acceso dibattito sulla proposta di reintroduzione della leva e a una critica divergenza d’opinioni al riguardo tra i ministri Salvini e Trenta. Lei che ha esperienza delle esigenze connesse sia con i nostri impegni in ambito internazionale (NATO, ma non solo) sia di quelli in ambito nazionale, chi ritiene che abbia ragione?

Hanno ragione entrambi! Intendiamoci, il problema non può essere schematizzato e semplificato (direi quasi banalizzato) come avviene per riempire i giornali a ferragosto.

Salvini coglie l’esigenza (reale) di rinsaldare il rapporto tra “cittadino” e “Nazione” (non mi piace il termine abusato di Paese) capovolgendo i termini del rapporto “dare-avere”, “diritti-doveri”. Come disse J.F. Kennedy “non domandatevi cosa il vostro paese può fare per voi ma cosa voi potete fare per il vostro paese”. È necessario, oggi in Italia, che il cittadino non percepisca lo Stato solo come un esattore delle imposte o un bancomat (si pensi al reddito di cittadinanza) ma anche come una “comunità” cui lui/lei appartiene e cui ognuno deve fornire il proprio contributo individuale. Approccio culturale fondamentale per il “collante” morale di qualsiasi nazione.

Dal canto suo, Trenta evidenzia che le attuali esigenze delle F.A. richiedono unità altamente specializzate, addestrate e motivate. Non dice un’altra cosa (che ritengo sottintenda) unità “spendibili” (cosa da non sottovalutare: ve lo immaginate se avessimo la “leva” le discussioni che divamperebbero in tutta Italia ogni volta che si dovesse inviare un’unità militare organica, non dico in Afghanistan, Iraq o Libia, ma anche in Teatri relativamente più tranquilli, come potrebbero essere Libano o Kosovo?)

Una “leva”, per di più molto breve (si parla di 4-6 mesi) non consentirebbe neanche di fornire le basi per tale impiego e si tradurrebbe in una perdita di tempo e risorse per la F.A. senza alcun ritorno pratico per le esigenze di difesa e sicurezza.

Una risposta diplomatica, ovvero, un colpo al cerchio e uno alla botte? Non me lo aspettavo da Lei!

No. Lasciamo da parte per il momento l’aspetto costi (che, come vedremo, rappresenta quello che gli anglosassoni chiamano “show stopper” ovvero l’elemento che potrebbe mettere tutto a tacere) e tentiamo di vedere, almeno a livello teorico, come potrebbe prendere forma questa iniziativa, che è sicuramente positiva negli obiettivi che si propone.

Intanto, la durata per non essere un’assoluta perdita di tempo dovrebbe essere almeno di 6 mesi (tra addestramento e un minimo di impiego operativo) seguiti da almeno 6 mesi in cui gli interessati potrebbero essere richiamati per far fronte a emergenze. D’altronde durate più lunghe non sarebbero socialmente accettabili (si pensi non solo ai lavoratori ma anche, ad esempio, a studenti universitari che magari vogliono andare all’estero a frequentare corsi Erasmus).

I compiti dovrebbero essere prioritariamente compiti di pubblica utilità o di concorso al controllo del territorio o intervento in caso di pubblica calamità. Compiti abbastanza elementari, in quanto la fase addestrativa di base non potrebbe realisticamente superare il 50% del periodo (tre mesi).

Senza alcuna pretesa di essere esaustivo, penso che si potrebbero ipotizzare compiti in supporto alla “protezione civile”, alla Croce Rossa, ai Carabinieri Forestali o alla Polizia Provinciale, attività nei parchi nazionali, attività di “ronda notturna” (preferibilmente disarmata) in quartieri degradati delle nostre città, eccetera.

Penso anche che un’aliquota di giovani selezionati, psicologicamente e fisicamente, potrebbe essere addestrata (dalle Forze di Polizia o, al limite, dall’Esercito) per far fronte a compiti tipo “Strade Sicure” (attività abbastanza statiche e ripetitive che non richiedono l’expertise dei nostri soldati “professionisti”).

Tutti compiti che, in effetti, poco hanno a ché fare con quelli delle Forze Armate.

Le competenze di coordinamento dell’attività? A meno di inventarsi un dicastero apposito, che mi sembrerebbe eccessivo, il coordinamento potrebbe risalire al Ministero degli Interni. Ciò sia per la tipologia dei settori d’impiego ipotizzabili sia per la capillare presenza sul territorio dei suoi organismi (cosa che la Difesa ormai da oltre vent’anni non ha più).

Ovviamente alle Regioni (sotto uno stretto coordinamento del Ministero degli Interni) dovrebbero essere attribuite responsabilità in proposito e avrebbero un ruolo importante in questa organizzazione. Le procedure di reclutamento, il reperimento di alloggiamento, l’interazione con altre realtà operanti sul territorio, ecc. sono solo alcune delle tante attività che potrebbero vedere un importante coinvolgimento anche delle Amministrazioni Regionali.

Per usare un’espressione inglese “yes, but not in my back yard” (sì, ma non a casa mia). Ovvero, bella idea, ma fatelo senza le F.A.! Davvero ritiene che le F.A. non abbiano bisogno di un servizio di leva per costituire riserve addestrate da richiamare in caso di un conflitto su più ampia scala?

Io sono entrato in Accademia nel 1973. Da allora ho visto costanti e consistenti riduzioni del volume organico delle Forze Armate, in generale, e dell’Esercito, in particolare. Inoltre, dal 1995 a oggi l’Esercito (più delle altre due F.A.) ha cambiato radicalmente il proprio aspetto (e non dico che ciò sia stato solo positivo, ma è un fatto inoppugnabile). Ciò, a mio avviso, essenzialmente per tre motivi:

  • I rischi alla nostra sicurezza (almeno quelli maggiormente percepiti) si sono concentrati più che altro fuori e, talvolta, anche molto lontani dai nostri confini. Questa situazione richiedeva forze “expeditionary” e prontamente impiegabili e spendibili (quindi ridurre le ”quantità” per disporre di forze “qualitativamente” superiori).

  • Il contesto internazionale e una politica estera tradizionalmente “timida” ci hanno portato a ipotizzare interventi militari sviluppati esclusivamente in ambito multilaterale (NATO, ONU, UE) e non puramente nazionale (come invece continuano a fare in Europa UK e Francia, ovviamente anche in relazione alla diversa politica estera). Pertanto, non era ritenuto necessario avere le forze e le capacità per condurre in toto un’operazione, ma bastavano le capacità necessarie per contribuire, insieme con altri, a un’operazione (sia pure in maniera anche molto sostanziosa, come facciamo in molti Teatri). Anche questo approccio ha offerto la giustificazione per ridurre i “volumi organici”.

  • La politica dei reclutamenti seguita dall’Italia (in controtendenza con quella di altri paesi che avevano una tradizione di esercito “volontario”, quali USA e UK, o anche che hanno fatto la stessa scelta contemporaneamente a noi, come la Germania) ha sempre privilegiato l’aspetto “occupazionale” rispetto a quello “funzionale” (ovvero le F.A. come ammortizzatore sociale prima che come braccio armato della politica estera e di sicurezza della Nazione). L’Esercito era visto dalle autorità politiche del momento essenzialmente come una possibilità di elargire stipendi, più che come un organismo dello Stato che deve essere governato da normative assolutamente peculiari per mantenersi efficiente, addestrato e, quindi, giovane1. Oggi, solo il 37% del personale graduato e di truppa (ovvero caporali nei vari gradi) è rappresentato da personale in “ferma prefissata” che quindi potrebbe ruotare ed essere eventualmente “svecchiata”. Gli altri sono in “servizio permanente” (la percentuale scende a circa il 24% se si considerano anche ufficiali, marescialli e sergenti, tutti in servizio permanente). È chiaro che in relazione ai caporali in servizio permanente, arruolati poco più che ventenni all’inizio degli anni novanta e ora quasi cinquantenni potrebbe risultare più problematico prevedere l’impiego operativo, con zaino, elmetto, giubbetto anti proiettile in Iraq o Afghanistan. Questo elevato numero di personale in servizio con una certa anzianità anagrafica ha fatto anche lievitare i costi degli stipendi, e ancora, quindi l’esigenza di ridurre i numeri per far tornare i conti. La “lotta al precariato con le stellette” ha portato a incrementare oltre misura i fondi destinati alle retribuzioni del personale, a danno delle spese di investimento/ammodernamento, ma soprattutto, a quelle di esercizio, che in primis garantiscono l’operatività di ciò che c’è. La conseguenza più grave, però, a mio avviso è il grave problema dell’invecchiamento delle nostre F.A.

Lo scenario internazionale cambia rapidamente, la stabilità che s’immaginava agli inizi degli anni novanta, quando si parlava di “dividendi della pace”, non si è, di fatto, materializzata! Anche in Europa riemergono crisi che potrebbero degenerare (si pensi alla tensione tra Ucraina e Russia, all’imprevedibilità della Turchia, che potrebbe creare nuovi casus belli nella regione del Mediterraneo Orientale, a problematiche mai del tutto risolte nei Balcani occidentali, ecc.). Se dovessero servire anche i soldati (e in numeri importanti) da schierare sul terreno, oltre alla tecnologia e all’expertise, dove li andremmo a prendere?

La leva consentiva di richiamare in tempi brevi centinaia di migliaia di congedati, addestrati di recente che potevano in poco tempo essere ricondizionati e inviati al fronte.

Questo bacino di risorse umane non esiste più! Allora la leva di sei mesi potrebbe essere una soluzione? Non credo! Troppo poco tempo per addestrare, esercitare e amalgamare i soldati. La creazione di riserve addestrate (tipo il vecchio Territorial Army britannico) è un’esigenza da affrontare, ma richiederebbe come minimo:

  • personale volontario,

  • un periodo di addestramento iniziale e di impiego in esercitazioni realistiche di adeguata durata (direi almeno un anno),

  • periodi di richiamo successivo (il ché implica tra l’altro una legislazione del lavoro che consenta, anche nel privato non solo nel pubblico, di conservare il posto di lavoro),

  • impieghi anche in teatri a bassa intensità, a completamento di unità “professioniste”.

In questo teorico bacino di risorse, potrebbero rientrare anche i volontari in ferma prefissata che non passano effettivi.

Si tratta di un problema reale e serio, che deve essere affrontato e studiato, ma che non credo possa essere risolto veramente con una leva di 6 mesi. Niente a che fare, quindi con quanto proposto in questi giorni né, tantomeno, con la “mini-naja” del ministro La Russa.

D’accordo, ma ritiene che le F.A. possano almeno contribuire con le proprie risorse e le proprie esperienze a tale progetto della “leva” ipotizzato dal ministro Salvini?

Qui la risposta, a mio avviso, è decisamente positiva.

L’Esercito, in particolare, potrebbe:

  • trasmettere agli organismi che saranno deputati l’expertise nel settore della leva, del reclutamento e delle selezioni sanitarie. Parlo di “trasmettere l’expertise” perché ormai i vecchi Distretti Militari sono stati in parte chiusi e in parte anemizzati, sino a divenire “uffici documentali” e non sarebbero più in grado di assolvere le vecchie funzioni sul territorio. Analogamente, gli organi della Sanità Militare, che rappresentavano una rete ben articolata sull’intero territorio nazionale, sono stati quasi tutti chiusi.

  • fornire personale qualificato (penso ai Volontari in Servizio Permanente e ai Sottufficiali con più esperienza, ma magari per ragioni di età meno impiegabili in operazioni esterne) come istruttori e addestratori. Si tratterebbe, però, di fornire personale esperto alle organizzazioni che fossero incaricate di gestire l’attività non di assumersi la leadership della formazione dei futuri “coscritti”.

Quindi, Lei ritiene il progetto “leva” ipotizzato dal ministro degli Interni possibile?

Tutto è possibile! Ovviamente, si tratta di scelte. Di fare questo, anziché quello! Di dedicare risorse a un progetto anziché a un altro.

Altra cosa è se ne valga la pena e se ce lo possiamo permettere in questo momento.

Dato per scontato che le F.A. potrebbero contribuire fornendo expertise e un certo numero di istruttori (che sarebbe opportuno poi gravassero sul bilancio di altri), vi sono tantissimi problemi da affrontare:

  • infrastrutture (i costi per rimettere in piedi le caserme dismesse sarebbero elevatissimi e in ogni caso mancano infrastrutture nel Centro-Sud e nelle Isole);

  • selezione e incorporamento di numeri elevati di ragazzi e ragazze (ovviamente dovrebbero farlo quasi tutti, altrimenti si assisterebbe a una grave ingiustizia sociale);

  • retribuzione, sia pure ridotta, di tali giovani che vivono lontano dalle famiglie (sia pure probabilmente nell’ambito della propria regione amministrativa o di quelle limitrofe), la loro vestizione e alimentazione;

  • elaborazione di programmi addestrativi e formativi e percorsi d’impiego da concordare con tutte le organizzazioni in cui tali giovani verrebbero inviati a operare (ad esempio Protezione Civile, Carabinieri Forestali, ecc). Do per scontato che, per perseguire gli obiettivi che il ministro Salvini si propone, l’impegno richiesto ai ragazzi e alle ragazze dovrebbe essere ben diverso e più significativo di quello richiesto dall’attuale così detta “leva civile”. Il loro addestramento dovrebbe essere ispirato a estrema serietà e competenza (pena l’inevitabile perdita di credibilità). Ritengo, pertanto, che tale addestramento dovrebbe essere demandato a “professionisti”, non ad associazioni sicuramente volenterose, che (nonostante i loro indubbi meriti) mi parrebbero improvvisate in tale delicata funzione.

Ovviamente non entro nel merito delle valutazioni, politiche, se i costi siano compatibili con gli obiettivi che s’intende perseguire, ecc.

Certo, la scelta non può essere fatta sulla base del ricordo di una “naja” ritenuta da alcuni “altamente formativa” e da altri una “perdita di tempo e opportunità”. Per aver senso (e personalmente ritengo potrebbe sicuramente averlo), dovrebbe essere una cosa nuova, moderna scevra da romanticismi e da facilonerie. Un’iniziativa che non tenti di “scimmiottare“ le Forze Armate. Ovvero “scherzate con i Santi, ma lasciate stare i Fanti” se mi consente!

In conclusione?

In conclusione, la proposta del ministro Salvini evidenzia un problema di carente formazione dello “spirito di cittadinanza attiva” che esiste e che dovrebbe essere affrontato.

Peraltro, le F.A. non sono, a mio avviso, il contesto più idoneo in cui dar vita a questa interessante esperienza. Ciò, in quanto le F.A. , che pur hanno assolto dall’Unità d’Italia alla fine del secolo XX un ruolo fondamentale per amalgamare e formare (anche culturalmente) la Nazione, hanno compiti diversi. Peraltro, ove il progetto (i cui costi sarebbero sicuramente consistenti) dovesse essere avviato, le F.A. potrebbero fornire expertise importante e istruttori per far riuscire al meglio il progetto e, eventualmente, assumersi la responsabilità di addestramento e formazione per alcune specifiche attività (es. la già citata “strade sicure”).

Infine, questa discussione non deve farci scordare il serio problema connesso con il progressivo invecchiamento dei nostri militari e della necessità (in un contesto geo-politico sempre più fragile e volatile, anche alle porte di casa nostra) di dotarsi per tempo della capacità di disporre di adeguate “riserve” motivate, addestrate e prontamente mobilitabili.

 

1 (N.d A.) Ad oggi il solo Esercito ha ben 38.845 graduati (ovvero caporali nei vari gradi) in servizio permanente a fronte di soli 22.518 caporali e soldati in ferma prefissata (componente che quindi ruota, o potrebbe ruotare, e potrebbe essere mantenuta giovane) . Questi ultimi rappresentano, cioè, il 37% scarso del totale. Considerando anche Ufficiali, Marescialli e Sergenti, la componente “con contratto a tempo indeterminato” sale a 71.528 su 94.046 (non considero gli allievi di accademie e scuole militari) pari al 76%!