Intervista al col. Borghesi: "Al CAPAR, più che paracadutisti, formiamo italiani..."

(di Giusy Federici)
15/05/19

“Noi siamo una piccola enclave, siamo una famiglia, cresciamo all’interno della stessa scuola e lì ci riconosciamo. Anche quelli che vanno via, comunque sono orgogliosi del periodo passato qui. Ed è bello riconoscersi anche fuori, perché non si è mai ex, si rimane paracadutisti per sempre”.

Il colonnello Alessandro Borghesi è il comandante del Centro Addestramento di Paracadutismo di Pisa. I paracadutisti di tutte le Forze Armate e della Polizia, non solo della brigata Folgore, si formano qui. Comprese le Forze Speciali, di ogni Arma.

Il CAPAR è la Folgore, ma anche la madre e il padre del paracadutismo, dall’iter che porta i ragazzi ai primi aviolanci, preparati nella palestra da ottimi e motivanti istruttori, fino alla Sezione di Paracadutismo Sportivo militare, dove nomi come Giuseppe Tresoldi e Paolo Filippini danno l’idea del livello, altissimo, che si raggiunge qui. Tante le attività svolte, dal corso scandito in moduli per i giovani aspiranti paracadutisti, al centro Simulazione, a quello dedicato al ripiegamento dei paracadute, dal reparto che si occupa dei lanci di materiali e strumentazioni, per tutte le Forze Armate in Patria e all’estero, fino all’MCM (Metodo di Combattimento Militare, ndr) e tanto altro. Senza dimenticare il museo delle Aviotruppe, un altro fiore all’occhiello della Folgore, di Pisa e dell’Italia. Tutte eccellenze dell’Esercito e delle Forze Armate, dove niente è lasciato al caso.

Un primato riconosciuto istituzionalmente, visto che lo scorso 8 maggio, durante le celebrazioni per i 158 anni della costituzione dell’Esercito italiano, il Centro Addestramento di Paracadutismo è stato insignito della Medaglia di bronzo al Valore dell’Esercito, “...Sintesi di nobili virtù militari, ha rafforzato nel corso degli anni il prestigio dell’Italia e l’onore dell’Esercito. Territorio nazionale ed estero, 1949 – 2017”, si legge tra le motivazioni.

Ho avuto la fortuna di poter osservare a lungo questi uomini e donne, visitare dove e come lavorano, condividere la mensa e anche un po’ di addestramento.

Con il comandante Borghesi, abbiamo fatto il punto sui valori e sulle sfide che spingono un ragazzo a entrare nelle fila della Folgore. E del senso dell’onore e dell’appartenenza che hanno i paracadutisti, ieri come oggi.

Quando arrivano gli allievi qui, quel che dico sempre è che, fondamentalmente, il nostro compito, più che paracadutisti che si lanciano dall’aeroplano, è formare dei cittadini consapevoli del loro ruolo. Perché l’essere militare è una delle responsabilità più alte. A me piace la nostra storia, a cui faccio sempre riferimento. Nel 'corsus honorum' degli antichi romani, ad esempio, per poter entrare nel mondo politico e della società in genere, bisognava comunque prestare il servizio militare. Bisognava essere disposti a versare il sangue per la Patria.

Questi di oggi sono ragazzi che non sempre vengono con dei veri ideali formati, ma arrivano qui per fare un lavoro che, un domani, potrebbe portarli a sacrificare la vita per difendere la Nazione, quello che quindi cerchiamo di fare qui è formare dei cittadini coscienti di questo. Il paracadutismo non è gettarsi da un aeroplano ma uno stile di vita, è il vivere sempre al massimo, sapendo che per fare le cose non esiste un solo modo giusto. Questo costa fatica.

Ci siamo chiesti più volte se fosse il caso di abbassare gli standard del nostro addestramento, ma siamo sempre giunti alla conclusione che non era il caso, perché intendiamo mantenere un livello alto. Il livello di preparazione fisica dei giovani italiani oggi è già più basso rispetto al passato. Abbiamo cambiato il nostro sistema di addestramento, da un iter che era altamente selettivo a uno, oggi, puntato verso la formazione: ti prendo per mano e ti guido a superare tutti i vari step. Abbiamo anche modificato i programmi, che oggi sono costruiti a moduli, e se un ragazzo non ne supera uno può ripeterlo, siamo meno draconiani. Quello che noi forniamo è la chiave con cui loro, in qualche modo, riesciranno a superare ostacoli. Quelli che imponiamo a noi stessi.

Ostacoli più mentali che fisici, quindi?

Giorno dopo giorno arrivano al punto di rottura ma lo passano. E la giornata successiva, puntano a un obiettivo più alto. E lo superano! Con l’aiuto degli istruttori e con la consapevolezza che, fondamentalmente, volere è potere. È questo quel che insegna loro l’istruttore.

I ragazzi riescono ad arrivare a traguardi che, all’inizio del corso, pensavano irraggiungibili. È un percorso lungo, faticoso, ma che porta a plasmare il carattere dei militari. Noi non abbiamo superuomini, che peraltro non esistono. Da giovane tenente mi insegnarono un detto che diceva che noi abbiamo i soldati migliori del mondo perché il paracadutista è convinto di poter far tutto… E abbiamo gli ufficiali e sottufficiali più bravi e motivanti che esistono nell’Esercito, proprio perché hanno i soldati migliori del mondo. Ma l’ufficiale deve sapere che anche il soldato migliore del mondo muore come tutti gli altri. Ed è quindi importante riuscire a preservarli e gestirli correttamente.

Colonnello Borghesi, lei parla di formare cittadini. Però molti ancora vi chiamano guerrafondai…

Chi chiama il soldato "guerrafondaio", oltre a dire una cosa tremenda, non ha capito niente di noi! Probabilmente, è il "mercenario" il guerrafondaio…

Il soldato, quello che ha visto cosa vuol dire la guerra, non può essere guerrafondaio. Ho vissuto un periodo in cui si partiva in missione quasi tutti i giorni, ho cominciato con la Somalia e non ho più smesso. Comandavo un plotone da ricognizione in Somalia in mezzo al deserto, dove le radio non erano moderne come oggi e c’era il detto “ti vedo ma non ti sento…”. Chi conosce la guerra, chi conosce cosa portano i conflitti, non può amare la guerra. Il militare è il più pacifista.

Noi soldati sappiamo quello che è il rischio e quindi, di base, il nostro compito è preservare la sicurezza delle popolazioni e salvaguardare i nostri uomini, perché per noi ufficiali sono il bene più prezioso. Un comandante non esiste se non ci sono i suoi uomini.

Sono orgoglioso di quello che faccio, sono nato qui come paracadutista di leva, poi sono andato in Accademia e ho fatto tutto il percorso da ufficiale, ma sono nato come soldato e questi piazzali qui li ricordo bene. Tornarci poi alla fine della carriera, per fare il comandante, è una soddisfazione incredibile, perché la mia esperienza di comandante di plotone, di compagnia, di battaglione, etc, mi serve per trasmettere ai ragazzi più giovani quello che ho imparato. Per me è entusiasmante.

Come rispondono i ragazzi di oggi alla trasmissione di certi valori?

I ragazzi di oggi sono diversi. Noi eravamo più ruspanti, giocavamo a soldatini e fortini, ci arrampicavamo sugli alberi, quelli di oggi hanno interessi diversi… diciamo che a livello motorio sono un pochino impacciati rispetto a come eravamo noi. Questi ragazzi, un domani potrebbero trovarsi a dover rispondere a un attacco. È successo anche a me di trovarmi in situazioni di conflitto a fuoco e non è che tu lo aspetti, ti ci trovi! Pertanto, non sarebbe corretto nei confronti dei ragazzi non prepararli. Io a loro dico che il sacrificio e il sudore che oggi noi facciamo “spendere”, non è per noi, è per loro stessi.

Qui, ad ogni corso di formazione per giovani paracadutisti abbiniamo un padrino, in genere un reduce, alla cerimonia finale. Naturalmente vengono anche i genitori, ed è una gran bella cosa quando ti dicono che il ragazzo è cresciuto, che ha preso coscienza di sé, che è maturo, che magari fa le pulizie a casa… sembrano stupidaggini, invece è indice di un cambiamento.

Se noi "regalassimo" un qualcosa, proprio perché regalato non avrebbe valore. Qui noi non facciamo sconti. Però, come ho detto, mettiamo in condizione di arrivare a ottenere risultati. La chiave è tutta nella loro testa, la capacità è lì dentro, non manca niente. Hanno 20 anni, a 20 anni si spacca il mondo! Di base, il problema è legato soltanto al non credere nelle proprie possibilità.

Il CAPAR forma tutti i paracadutisti militari italiani…

Ho la fortuna di avere ancora un piccolo gruppo di istruttori, perché ormai stanno andando in pensione. Finché abbiamo queste esperienze e capacità sicuramente saremo all’avanguardia. Il CAPAR è la scuola che forma i paracadutisti di tutta la Difesa, non solo quelli della brigata Folgore. Noi formiamo i paracadutisti che andranno nelle Forze Speciali, quelli della Polizia, della Marina, etc.

Credo profondamente nei miei ragazzi e sono orgoglioso di loro. Penso che questo sia uno dei momenti più importanti della loro vita. Se partiamo male qui e seminiamo una piantina storta, poi crescerà storta.

Qui il generale Carlo Mautino, reduce da El Alamein, portò la bandiera di Istituto, il 16 giugno del 1957. Ma portò anche lo spirito e le tradizioni dei paracadutisti, che sono così da quando è stata formata la specialità. E noi combattiamo per far in modo che queste tradizioni non vadano perdute.

Voi siete molto vicini alla popolazione, dall’aiuto nelle calamità naturali a Strade Sicure. Una volta con Pisa non c’era un buon rapporto…

Molti decenni fa, quando l’Esercito non era ancora formato da professionisti, talvolta ci sono stati dei dissapori tra militari di leva e cittadini. Adesso con la città di Pisa abbiamo un ottimo rapporto: sia con la giunta di adesso, di centro destra, che con quella precedente, che era di centro sinistra. Il nuovo sindaco, come il precedente, è venuto con noi all’alzabandiera ed è rimasto a pranzo. Con la città c’è un rapporto di forte senso di appartenenza. Questo però è accaduto, pian piano, dal momento in cui abbiamo avuto professionisti e, di conseguenza, i militari vivono all’interno di Pisa, fanno parte del tessuto sociale della città e quindi si è creato un rapporto differente. E Pisa, in qualche modo, ha perso quella diffidenza, che è diminuita pian piano dal momento in cui noi abbiamo imparato ad aprire la caserma alla città.

Alla Folgore e ai paracadutisti in genere, spesso viene attribuita una collocazione politica molto a destra. Eppure, avete contribuito e parecchio alla lotta di Liberazione. Un nome per tutti, i parà della Nembo, a Filottrano e non solo…

Ho un ottimo rapporto con il presidente dell’Associazione nazione partigiani, Anpi, di Pisa. Ma questo rapporto l’abbiamo conquistato giorno per giorno, perché non era tale in precedenza. Abbiamo cominciato a farlo venire qui, a spiegargli, a raccontargli la storia così com’era ed a partecipare a loro iniziative.

Due anni fa alle celebrazioni del 25 aprile si ricordava il contributo dei partigiani e dei militari internati. E sono stati ricordati non solo i militari internati, ma anche i militari del Corpo di Liberazione, che hanno combattuto.

La vera guerra partigiana è nata dopo l’8 settembre, quando si è arricchita di tutti i soldati che, con esperienza di guerra, entravano a far parte dei vari gruppi della Resistenza. Molti paracadutisti son diventati partigiani famosi.

Il generale Li Gobbi, già comandante della brigata Folgore e medaglia d’oro, è stato un partigiano. È stato aviolanciato dagli americani dietro le linee nemiche, ha organizzato e addestrato un gruppo partigiano e ha combattuto con loro. O il comandante Alessi, del 1° battaglione Carabinieri paracadutisti che combatté e fu distrutto a Eluet El Asel, anche lui quindi paracadutista e che si è poi trovato a combattere infiltrato dietro le linee e a organizzare gruppi partigiani.

Dal Corpo italiano di Liberazione partì l’ossatura del nuovo Esercito quando il re, a un certo punto, chiese al generale Alexander di ricostituire le truppe italiane combattenti: gli italiani inizialmente venivano usati solo per trasportare i mezzi e le vettovaglie mentre volevano combattere anche loro e partecipare all’onore dell’Italia. Gli inglesi all’inizio erano restii, poi diedero l’ok. Fu messo in campo a Montelungo il battaglione motorizzato, videro che gli italiani combattevano e alla fine fu necessario costituire un’unità più grande. Avevamo la possibilità di ricostituire un Esercito, ma molte unità erano allo sbando, tranne quelle che avevano una maggiore tradizione e spirito di Corpo. Le unità dei paracadutisti, proprio per la loro formazione e il senso di appartenenza, rimasero intatte. Quando il comandante del Corpo italiano Umberto Utili cercò unità ancora funzionanti e operative, i paracadutisti erano una delle realtà più grandi che era rimasta pronta a combattere.

Su quella struttura, la divisione Nembo, si venne a costituire poi il Corpo italiano di Liberazione...

Corpo italiano di Liberazione che, dal sud, arrivò fino a Bolzano. C’è da essere orgogliosi che i paracadutisti italiani siano una parte d’Italia che ha risposto in maniera quasi corale alla chiamata alle armi per la liberazione d’Italia.

Il presidente dell’Anpi di Pisa ha scritto una bellissima lettera, il giorno della commemorazione di un 25 aprile, in cui ha reso omaggio ai nostri, ai paracadutisti che hanno combattuto e sono morti, cittadini italiani, giovani, che sono morti e che sono stati dimenticati. È una lettera bellissima.

E ce n’è un’altra, altrettanto bella, dove a un certo punto, finita la guerra, il generale Paolo Berardi, già capo di stato maggiore del Regio Esercito dal 1943 al 1945, scrive nel 1944 al generale Umberto Utili, che fu il comandante del Corpo Italiano di Liberazione parlando anche del generale Giorgio Morigi, comandante della divisione Nembo. 

“Caro Utili, ho visto il tuo ordine del giorno del 15 luglio pubblicato sui giornali in elogio della Nembo. Date le circostanze non mi è purtroppo possibile fare altrettanto in via ufficiale. Desidero peraltro che giunga alla Nembo ed alle altre truppe del Corpo Italiano di Liberazione – ed anzitutto ai Comandanti – non soltanto la ripetizione di un plauso ma soprattutto questo mio pensiero: Voi non sapete ancora quale grandezza di servizio avete reso all’Italia coi vostri sforzi ininterrotti e col copioso sangue versato. Io spero che un giorno non lontano ve lo possa dire. Proseguite alla testa degli italiani quale oggi siete. A te ed a Morigi, che - con la vostra opera fattiva e silenziosa risollevate l’onore e la capacità dei vilipesi generali italiani, il mio saluto affettuoso e l’espressione della riconoscenza dell’Esercito.”. (è il testo della lettera di Berardi, ndr).

È incredibile che un uomo, già in quel momento, si renda conto e debba quasi sussurrare: “ti dico bravo, ma non posso dirtelo pubblicamente perché in questo momento non si può”. E quegli uomini sono morti per questo. Sono dell’opinione che oggi questo si possa e si debba dire. Dobbiamo essere orgogliosi di TUTTA questa tradizione: di El Alamein, di aver fatto parte dell’Esercito ricostituito e di essere stati nella Folgore. Chi può vantare un “pedigree” come il nostro? E noi andiamo a disperdere i nostri ideali? Non ce n'è per nessuno! I nostri ideali sono indistruttibili.

Finché baseremo la nostra formazione dei giovani su questi ideali, non potremo che avere degli ottimi italiani. Perché noi, fondamentalmente, formiamo italiani!

Foto: Daniele Mencacci / Roberta Arcuri / autore / Esercito