L'insostenibile leggerezza della “rotta balcanica”: intervista al segretario del SAP triestino Lorenzo Tamaro

(di Andrea Gaspardo)
09/07/20

A partire dal 2014, la pressoché totalità dei mezzi d'informazione di massa ha dato un risalto via via maggiore al flusso di immigrazione clandestina proveniente dalla cosiddetta “rotta balcanica”. Tuttavia il livello di copertura mediatica ad essa riservato non è mai stato minimamente comparabile a quello della cosiddetta “rotta mediterranea”.

Prestare attenzione alla “rotta balcanica” è fondamentale per garantire la stabilità e la sicurezza nazionale del nostro paese e, per questa ragione, il grido d'allarme proveniente dagli uomini e dalle donne che costituiscono la nostra “prima linea di difesa” non deve assolutamente essere ignorato.

Il segretario provinciale del Sindacato Autonomo di Polizia di Trieste, Lorenzo Tamaro, ha accettato di condividere con noi l'esperienza sul campo e le difficoltà che la Polizia sta affrontando in questo delicatissimo momento storico.

Potrebbe descrivere, a beneficio dei lettori, quali sono state le tappe della sua carriera all'interno delle forze dell'ordine e come sia approdato alla segreteria del SAP (Sindacato Autonomo di Polizia) della provincia di Trieste?

Sono un sovrintendente della Polizia di Stato ed attualmente rivesto la carica di segretario provinciale di Trieste del SAP - Sindacato Autonomo di Polizia.

Sono entrato in Polizia nel febbraio del 1989, ho prestato servizio a Milano presso il III° Reparto Mobile fino al 1992 (durante il quale ho effettuato numerosi servizi di ordine pubblico, anche in occasione dei mondiali di calcio di “Italia 90”, e servizio di “Volante” nelle città di Bergamo, Pavia e Rimini) e poi a Trieste, dal 1992 al 1994 alla Polizia Ferroviaria.

Ho continuato il mio percorso professionale dal 1994 al 1999 presso la Questura di Trieste alla Squadra di Polizia Giudiziaria dell’Ufficio Stranieri, e poi dal 1999 ad oggi presso la Squadra Mobile rivestendo mansioni investigative nell’ambito del contrasto alla criminalità organizzata, a quella straniera e, successivamente, nella lotta al crimine diffuso e alla prostituzione ed oggi nel contrasto dei reati contro la persona.

Sono iscritto al Sindacato Autonomo di Polizia dal 1989 e partecipo attivamente all’attività sindacale dal 2004. Dal 2009 ad oggi sono il responsabile provinciale giuliano. Ricopro inoltre la carica di consigliere nazionale e, dal 2019, anche quella di segretario regionale aggiunto del F.V.G.

Alla luce della sua personale esperienza, come è cambiato nel corso dei decenni il “lavoro” delle forze di polizia “sul campo”. Quali sfide si sono maggiormente imposte alla vostra attenzione negli anni recenti?

Nel corso di questi trent’anni del mio percorso professionale sono molte le cose che sono cambiate nel “lavoro” delle forze di polizia “sul campo”, sia in ambito nazionale che in quello locale, dovute maggiormente al cambiamento della società, ma anche alle innovazioni sia tecnologiche che normative e alle difficoltà dovute alle carenze che la Polizia di Stato e le altre Forze dell’Ordine patiscono da anni a causa di politiche avverse e decisioni che ritengo sbagliate.

Oggi ci troviamo ad affrontare, nell’ambito nazionale, fenomeni come la criminalità organizzata, il terrorismo, in particolare quello di matrice islamica, movimenti politici antagonisti, tifo violento organizzato, ma anche criminalità diffusa, con tipologie di reati che impensieriscono e creano maggiore allarme sociale e che colpiscono nella quotidianità la gente per bene; una difficoltà, quella di contrastare questi fenomeni, ampliata da strumenti anche normativi inadeguati e ormai non più al passo con i tempi e le esigenze attuali.

Nel corso di questi anni, la nostra professione ha perso sul campo quella necessaria “autorità” ben diversa da un “autoritarismo” che nessuno di noi invoca; un’autorità necessaria e che rischia di essere nuovamente depotenziata dalla reintroduzione della “lieve entità” sui fatti commessi ai danni degli agenti.

C’è un forte rischio oggi per gli operatori di Polizia di trovarsi alla sbarra degli imputati per aver svolto le proprie funzioni. Un paradosso questo: viviamo una realtà rovesciata. Realtà nella quale il bene viene condannato e additato come cattivo e il male accarezzato con cura.

La paura maggiore, per un operatore di Polizia oggi, non è quella di farsi del male oppure addirittura morire in servizio, ma quella di vedere la propria vita e quella dei propri affetti familiari sgretolarsi, sotto il profilo mentale ed economico, a seguito di vicende giudiziarie inerenti a quanto accaduto durante la propria professione, ritrovando i propri nomi sbattuti sui media e dipinti sulle pagine dei quotidiani come dei mostri, per poi proseguire in lunghissime vicende giudiziarie dove poi a dover pagare anche le spese legali sono sempre e solo loro.

La cosa più brutta è che ci ritroviamo soli! Un esempio recente ed evidente è stato il cosiddetto “caso Alina” di Trieste. Otto anni di vicende giudiziarie con imputazioni di reati gravissimi, come ad esempio quello di “sequestro di persona”, ed aggettivi feroci utilizzati dalla stampa (come “carcerieri”) per definire i nostri colleghi e il Commissariato di Opicina degradato a “Commissariato degli Orrori”, per poi risolversi, com’era giusto accadesse e come accade nel 90% dei casi in cui si ritrovano accusati gli appartenenti delle Forze dell’ordine, in maniera definitiva e positivamente. Anche in questo caso quei terribili aggettivi sono stati sostituiti da altri: assolti, innocenti!

È per vicende come questa, e purtroppo molte altre, che il SAP chiede da tempo di ottenere delle garanzie funzionali. Serve rimodulare il procedimento penale nei confronti degli operatori delle Forze dell’Ordine, affinché ogni caso sia gestito direttamente dal procuratore generale, e che venga inoltre prevista una formula speciale di archiviazione nel caso sussistano cause di giustificazione. Questo per la serenità degli operatori di Polizia in caso fossero innocenti e per non permettere a chi dovesse eventualmente essere colpevole di continuare a svolgere queste funzioni così importanti per la sicurezza del Paese.

Ma anche le dotazioni sono spesso del tutto inadeguate.

Dopo la battaglia per i giubbotti antiproiettile scaduti, che ha visto il SAP esporre i suoi dirigenti sindacali in maniera forte e in prima linea, continuano le problematiche in alcuni casi molto gravi connesse alle dotazioni, come ad esempio la questione delle fondine che si rompono, con conseguenze drammatiche, ma anche la mancanza di armamenti al passo con i tempi, come ad esempio il tanto atteso e mai distribuito “Taser”, malgrado la sperimentazione sia da tempo terminata con esito positivo.

Uno strumento di questo tipo verrebbe utilizzato quotidianamente e risolverebbe positivamente la maggior parte degli interventi che spesso cagionano lesioni sia agli operatori di Polizia che ai loro aggressori a seguito di colluttazioni, dato che in questo modo esse verrebbero evitate.

A livello locale, Trieste nel corso degli ultimi anni ha subito una profonda trasformazione; ha un’attività portuale in pieno sviluppo ed oggi di primo rilievo su scala nazionale ed europea, con tutte le conseguenze che ciò comporta, anche in termini di “interessi ed appetiti” da parte della criminalità organizzata.

Ma il capoluogo giuliano ha avuto una trasformazione anche sul piano turistico di notevole importanza; questo impone un’attenzione in termini di sicurezza proprio per garantire chi vuole godersi le bellezze di questa città, ma anche una prevenzione rispetto a “minacce” che potrebbero essere di natura terroristica.

Poi, non ultima, la questione dell’immigrazione clandestina, che tocca direttamente e in maniera forte questo territorio e che sta mettendo in difficoltà le forze di Polizia qui dislocate perché in forte deficit in termini di uomini, mezzi e strutture logistiche per affrontare un fenomeno costantemente in crescita, in un territorio costituito da circa 54 km di Carso che per la sua conformazione geografica e geologica è facilmente “violabile” e “permeabile” da qualsiasi parte.

A partire dal 2014, numerosi giornalisti e commentatori politici hanno parlato con sempre maggiore insistenza della cosiddetta “rotta balcanica” dell'immigrazione clandestina. Ma è davvero un fenomeno così recente oppure affonda nella Storia?

È incredibile, per chi vive in questo territorio, pensare che nell’immaginario comune, fra cui quello di giornalisti, commentatori e politici, la “Rotta Balcanica” passi per un qualcosa di nuovo, recente, di soli pochi anni.

Aggiungo che spesso sono stato interpellato proprio a riguardo perché l’argomento continua ad essere poco conosciuto, ma soprattutto sottodimensionato, se non addirittura ancora sconosciuto, a livello nazionale, a volte addirittura appena fuori al Friuli-Venezia Giulia.

Da quando sono in Polizia, quindi tre decenni, in realtà sento “trattare” sul lavoro della cosiddetta “Rotta Balcanica”.

È una rotta ben collaudata, che nel corso del tempo ha subito notevoli mutazioni e conformazioni, ma che col passare degli anni si è saputa adattare a quelle che sono le esigenze del tempo. Un flusso costante quindi di migranti, che però negli ultimi anni è sicuramente aumentato in maniera importante, mutando spesso anche le etnie che hanno utilizzato questo territorio di passaggio. Un flusso che passa per Trieste, che costituisce sicuramente una tappa fondamentale del viaggio, il punto d’ingresso centrale per l’Europa.

Potrebbe gentilmente spiegarci come nel corso del tempo siano variati i flussi e come sia cambiata la percentuale di nazionalità maggiormente rappresentative tra la popolazione di “migranti” che attraversano la rotta balcanica?

La “Rotta Balcanica” odierna, differisce molto da quella degli anni ottanta. All’epoca gli “arrivi clandestini” erano occulti, nascosti, non si dovevano vedere, scoprire; alla vista delle Forze dell’Ordine, gli immigrati scappavano.

I suddetti arrivi avvenivano quasi esclusivamente a bordo di automezzi, condotti da “guide” del posto. Quelli di oggi invece, sono passaggi palesi, alla luce del sole, spesso utilizzando ingressi ben conosciuti, anche per agevolare la Polizia nel loro rintraccio, per poi “rifugiarsi” nella richiesta dello status di “rifugiato politico”.

I viaggi sono oggi effettuati nella maggior parte dei casi a piedi, partendo da Bihac, località della Bosnia situata a ridosso del confine con la Croazia, percorrendo poi i boschi di Croazia e Slovenia. Un viaggio lungo, faticoso, che sicuramente mette a dura prova gli immigrati anche sotto il profilo sanitario, un problema questo che si aggiunge agli altri.

La politica e le leggi italiane di oggi influiscono molto sul fenomeno, non ostacolandolo, ma agevolandolo.

Anche le etnie sono cambiate nel corso degli anni. Dalle migrazioni di fine anni ottanta - inizio anni novanta, costituite da etnie asiatiche, come ad esempio individui originari dalla Cina, dal Bangladesh, dallo Sri Lanka, poi quelle provenienti dai Balcani dopo una guerra fratricida che ha portato in maniera stanziale sui nostri territori etnie come quella serba, macedone, bosniaca, albanese, kosovara. Migrazioni di intere famiglie, intente a ricostruirsi una miglior vita seppur lontano da casa, che differiscono profondamente da quelle odierne costituite in maggioranza da Pakistani, Afghani, Iracheni; giovani uomini senza le proprie famiglie a seguito, un dettaglio che deve imporre necessariamente una profonda riflessione. Non mancano anche gruppi provenienti dall’aerea del Magreb, un passaggio apparentemente innaturale che deve accendere una giusta attenzione sul fenomeno.

Quali sono i paesi attraversati dalla “rotta balcanica” e quali politiche hanno adottato per gestire tale fenomeno? Quali sono i principali “hot-spot”? Quali rapporti di collaborazione ha l'Italia con ciascuno di essi?

La cosiddetta “Rotta Balcanica” parte da Turchia e Grecia per poi addentrarsi in Serbia, Bosnia, Croazia e Slovenia ed accedere infine, attraverso l’altipiano carsico, al capoluogo regionale del Friuli-Venezia Giulia, oppure proseguire verso Milano, per poi dirigersi verso altre mete europee.

Attualmente, un grosso centro di raccolta di immigrati che attendono di incamminarsi verso Trieste è proprio quello di Bihac, che si trova in territorio bosniaco a ridosso della cinta confinaria con la Croazia. Uno dei motivi di forte preoccupazione ora è costituito dal fatto che le notizie che arrivano da quel sito parlano di circa 10-15 mila persone che attendono in questo momento di partire verso il nostro territorio.

Ritiene che dietro la logistica della “rotta balcanica” esista la mano delle grandi organizzazioni criminali internazionali interessate a sfruttare economicamente i migranti, oppure di potenze straniere interessate a destabilizzare geopoliticamente questa area d'Europa?

Assolutamente sì! Non è pensabile che un simile traffico di esseri umani non possa essere fonte di guadagno di qualcuno.

Sicuramente ci troviamo di fronte ad organizzazioni criminali molto diverse rispetto a quelle degli anni Novanta. Allora ci opponevamo ad organizzazioni di criminalità organizzata ben strutturate e radicate sui territori, con ruoli ben precisi, costituite per lo più da persone del territorio. Oggi si ha l’impressione che ci siano organizzazioni più “leggere” spesso costituite da uomini delle stesse etnie che fanno ingresso illegalmente in questi territori.

Un viaggio dal costo compreso tra i sette ed i dieci mila dollari non può che essere un buon business per le organizzazioni malavitose.

Nel corso del tempo, Trieste e l'area del Carso in generale, si sono tramutati nella vera e propria “porta” dei flussi clandestini verso l'Italia e l'Europa settentrionale. Quali sono le forze che la nostra polizia di frontiera è in grado di opporre a questo movimento tettonico e sono sufficienti per adempiere alla missione?

Molto è cambiato nel corso degli ultimi anni per gli uomini e le donne della Polizia di Stato della Polizia di Frontiera di Trieste.

Prima dell’entrata in vigore del Trattato di Schengen, la Polizia di Frontiera di Trieste disponeva di circa duecentosessanta operatori da dislocare tra i valichi confinari, che erano costituiti da circa trenta presidi di varia entità: quelli internazionali, quelli di secondo livello e quelli agricoli. In quel frangente si sono persi centocinquanta uomini, rimanendo con centodieci, nella prospettiva che l’Italia dovesse svolgere il suo ruolo di frontiera “interna” all’interno dell’area Schengen. Un organico comunque ridotto rispetto a quello previsto dalle piante organiche che prevedevano per la frontiera triestina di disporre di centoventi unità distribuite tra le tre sottosezioni di Polizia di Frontiera Terrestre di Villa-Opicina, Fernetti e Rabuiese ed il Settore Polizia di Frontiera Terrestre che svolge compiti di coordinamento, funzioni amministrativo-logistiche ed inoltre cura la parte investigativa tramite la squadra di Polizia giudiziaria.

Attualmente con il personale a disposizione si riesce a mettere su strada per ogni quadrante due, tre pattuglie che svolgono una funzione di “retro-valico” e quindi devono presidiare una cinta confinaria lunga ben cinquantaquattro chilometri e sopperire a tutte quelle attività inerenti alla “frontiera”.

Va precisato che tra le funzioni della Polizia di Frontiera, il tema dell’immigrazione clandestina è solo una parte e non quella esclusiva delle incombenze sulle quali dover intervenire. Ci sono infatti controlli documentali sui mezzi e sulle persone che entrano ed escono dal nostro territorio e, in questo periodo, anche la questione dei controlli legati alle norme ed a D.P.C.M. per prevenire la diffusione dei virus, legato alla pandemia del Covid-19.

Oggi gli organici si aggirano intorno alle cento unità, quindi già fortemente sottodimensionati rispetto ad una situazione ordinaria, che con la pandemia e, soprattutto, con la questione dell’immigrazione clandestina, oggi assume caratteristiche straordinarie, benché fortemente preventivabili.

Ci sono anche altre situazioni, come quelle della possibilità della “chiusura” di Schengen, in determinate circostanze, come lo è stato in occasione del G7 di Taormina, durante il quale le forze in campo hanno già dimostrato di non essere sufficienti per “sigillare” realmente la frontiera che in situazioni di quel tipo diventa “esterna”. Problemi in questo caso derivati non solamente da un organico insufficiente, ma perfino da carenze strutturali evidenti, non esistendo più nemmeno gli uffici di un tempo che si trovavano sulle “porte d’ingresso” dei valichi, abbattuti a quel tempo come previsto e che nell’occasione di un ripristino delle frontiere non vengono nemmeno sostituiti con delle strutture modulari o prefabbricate. In quel caso i controlli vengono effettuati dagli operatori direttamente su strada senza nemmeno un riparo dalle intemperie.

Tutte questioni, queste, che sono state portate alla ribalta dal SAP di Trieste che nel corso degli anni ha organizzato perfino manifestazioni e campagne di sensibilizzazione che sono state riprese più volte dai mass-media sia locali che nazionali. La richiesta di un incremento di uomini da parte del SAP che nel 2015 portò alcuni consiglieri comunali di Trieste a chiedere un Consiglio Straordinario Comunale sulla sicurezza proprio per parlare di questo argomento. In quel frangente, il SAP locale, portò in Consiglio le ragioni dei propri gridi di allarme documentando con numeri ed argomenti concreti la situazione che si era determinata; una situazione allora ben meno pesante rispetto a quella attuale.

A nostro avviso le forze messe in campo dalla Polizia di Frontiera sono inadeguate a poter fronteggiare un simile flusso di persone. Siamo convinti che le persone “rintracciate”, quelle che fisicamente vengono trovate e per le quali vengono effettuate le pratiche previste dalla legge, costituiscano solo una parte, sicuramente di molto inferiore a quelli che sono i “passaggi” e gli “ingressi” clandestini nel nostro territorio.

La convinzione è dettata dal fatto che, nel momento in cui vengono ritrovati gruppi così numerosi, come accade sempre più spesso, le pattuglie, quelle poche della Frontiera, coadiuvate anche dai militari di “Strade sicure” e purtroppo, spesso, dagli equipaggi delle “Volanti” e delle altre “Specialità” rientrano negli uffici per redigere gli atti ed il territorio rimane sguarnito favorendo il passaggio di altre persone che guadagnano la via verso altre città, come ad esempio Milano, per poi proseguire il viaggio nei vari Paesi europei.

Ma il problema non sta solo nella carenza di organico, ma anche in quella di mezzi adeguati, basti pensare che non disponiamo nemmeno di mezzi dotati di adeguate protezioni, come ad esempio vetri separatori, tra i fermati e gli operatori di polizia, come invece dispone la vicina Polizia Slovena. Pochi sono poi gli automezzi idonei a percorrere percorsi sterrati e poter addentrarsi nei boschi, mi sto riferendo a Jeep o fuoristrada.

Inoltre, mancano degli uffici che possano accogliere un numero così elevato di persone.

In cosa consiste, dal punto di vista materiale e di procedura amministrativa, il lavoro della polizia di frontiera? A quale iter amministrativo e medico sono sottoposti i migranti una volta che vengono intercettati dalle nostre forze dell'ordine?

Dall’ingresso in Schengen della Slovenia il confine “esterno” è diventato quindi quello croato, trasformando un antico controllo ai valichi di frontiera italiani in una vigilanza dinamica automontata lungo i cinquantaquattro chilometri di confine tra l’Italia e la Slovenia. Gli operatori della Polizia di Frontiera terrestre di Trieste svolgono questa tipologia di servizio da ormai tredici anni, nel corso dei quali si sono viste fasi di adattamento ed evoluzione.

I controlli di “retro-valico” sono mirati alla prevenzione e repressione di ogni tipo di reato, quindi al controllo delle persone, dei veicoli, alla ricerca di stupefacenti, di armi, ma anche, come negli ultimi anni, alla repressione di fenomeni criminali come il contrabbando di tabacchi lavorati o la tratta di animali, questi ultimi due in aumento.

Durante l’era della pandemia del Covid-19, gli operatori della Polizia di Frontiera hanno aggiunto ai già numerosi compiti, quelli riferiti al far rispettare i provvedimenti messi in atto per fronteggiare l'epidemia.

C’è inoltre da segnalare che con l’attuazione del trattato di Schengen, ipoteticamente si potrebbe partire dai confini ucraini e raggiungere il Portogallo, addirittura zigzagando attraverso l’Europa, senza essere soggetti ad alcun controllo di Polizia. Una delle arterie principali per esempio parte dall’est-europea (Romania, Bulgaria, Ucraina), transita per la Slovenia ed ha come foce italiana l’ex valico di Fernetti, quindi il flusso veicolare è sicuramente aumentato in maniera esponenziale così come l’attività criminosa inerente il traffico di ogni bene.

Gli immigrati che fanno ingresso illegalmente sul territorio nazionale e vengono rintracciati dagli operatori della Polizia di Frontiera Terrestre di Trieste vengono abitualmente accompagnati presso la Sottosezione di Fernetti, dove è stato istituito una sorta di punto per l’identificazione foto-segnalamento. Lì vengono contattati gli operatori del 118 tramite il NUE per uno screening sanitario in ottemperanza alla normativa Covid-19 vigente; prima della pandemia NON venivano effettuati questi controlli se non su richiesta dei migranti a seguito di palesi sintomi o dolori dovuti a problemi articolari causati dai giorni di cammino che gli stessi avevano dovuto sostenere partendo dalla Bosnia per raggiungere il territorio nazionale.

L’iter procedurale, messo in atto dall’operatore della Polizia di Frontiera, dopo il rintraccio di migranti entrati illegalmente sul territorio è:

  • La dichiarazione delle proprie generalità da parte dello straniero mediante un modello plurilingue coadiuvato da un mediatore culturale che traduce simultaneamente e che segue TUTTE le fasi della procedura;

  • Il foto-segnalamento;

  • La denuncia in stato di libertà ai sensi dell’art. 10 Bis D.lvo 286/98;

  • Richiesta di protezione internazionale (a richiesta dello straniero che però viene sempre edotto di questa facoltà)

  • Accompagnamento presso struttura idonea all’accoglienza (sia per minori che per maggiorenni) dove durante l’emergenza COVID-19, viene trascorso il periodo di quarantena di 14 gg previsto dall’attuale normativa (in caso di positività Eurodac)

  • Riammissione in Slovenia, luogo di provenienza, in caso di Eurodac negativo.

L'epidemia del Covid-19 ha influito in qualche modo sul flusso dei migranti attraverso la “rotta balcanica”? Ritiene che le iniziative messe in campo nel corso degli anni sia dalla politica italiana che dalle autorità europee siano state di aiuto a voi “operatori sulla linea del fronte”, e in caso la risposta sia negativa, come si potrebbe rimediare?

Sicuramente! Il flusso di migranti l’anno scorso ha registrato un forte aumento di arrivi rispetto l’anno precedente. In questi primi sei mesi dell’anno c’è stato un accrescimento sostanziale perfino rispetto l’anno scorso. In pieno inverno, nei mesi di gennaio e febbraio, quando le condizioni meteorologiche, per ovvi motivi, erano proibitive, gli ingressi sono stati quasi il triplo rispetto l’anno scorso.

Poi il Covid-19 e la chiusura, questa volta effettiva, delle frontiere da parte di tutti gli Stati. In marzo ed aprile si sono registrate delle flessioni importanti negli arrivi, inferiori rispetto all’anno scorso, ma comunque molto considerevoli rispetto al 2017.

Con la riapertura delle frontiere nel mese di maggio, malgrado quella tra Slovenia e Italia rimanesse chiusa, si è registrata un’impennata molto importante, con un dato come quello della Polizia di Frontiera di Trieste che descrive in modo significativo il senso delle proporzioni: cinquecentoventitré rispetto ai centosessantotto del 2019.

Come SAP, abbiamo denunciato anche in questi giorni la mancanza di attenzione da parte della politica nazionale rispetto a quanto sta accadendo su questo “fronte”. Sentiamo quotidianamente parlare degli sbarchi nei porti italiani, ma i numeri degli arrivi a Trieste parlano chiaro: il “porto terrestre” del Carso giuliano, metaforicamente, registra l’approdo più grande.

Nulla si è fatto per rinforzare gli organici di Polizia, nessun implemento di mezzi ed attrezzature, nessuna struttura idonea per poter disbrigare le pratiche previste per legge in piena sicurezza.

Si pensa che nessuno stia dando la stessa attenzione, per quanto riguarda il profilo sanitario, riservata alle navi delle ONG che attraccano nei porti d’Italia. Per i controlli sanitari infatti si deve di volta in volta contattare il servizio sanitario per richiedere personale medico; su questo argomento il SAP è da anni che sta chiedendo un protocollo sanitario chiaro che si attivi automaticamente in caso di rintraccio di immigrati clandestini, viste le condizioni sicuramente precarie dopo un viaggio simile, al di là del Covid-19. Patologie di varia natura che possono rappresentare un pericolo per la comunità e per gli operatori di Polizia, i primi soccorritori degli immigrati e che solo personale come quello medico è professionalmente preparato ed in grado di riscontrare.

Proprio in questi giorni il vicegovernatore della Regione Friuli-Venezia Giulia, Riccardo Riccardi, ha lanciato l’allarme per la pandemia presente sui territori balcanici ed il pericolo dell’arrivo incontrollato di soggetti a rischio, un’ulteriore prova che quanto richiesto da tempo dal SAP è necessario per la salute di tutti.

Per arginare il flusso sono necessari degli accordi diplomatici fra i vari Paesi, in particolare con la vicina Slovenia.

Ultimamente si stanno effettuando con più frequenza le cosiddette “riammissioni” tra la frontiera interna italiana e quella slovena che costituisce la vera “barriera” extra-Schengen. Queste “riammissioni” sono però ancora difficili da effettuare: servono delle modifiche affinché siano più snelle e facili da applicare.

Le “riammissioni” danno dei buoni risultati. Consideriamo che la Slovenia è un Paese come l’Italia, che oltre ad appartenere all’Europa, è un Paese aderente all’accordo Schengen ed offre certamente tutte le garanzie umanitarie previste per i rifugiati.

Un fenomeno quello dell’immigrazione clandestina che mette a dura prova anche i colleghi della Polizia slovena. Il SAP, aderente al C.E.S.P. - Consiglio Europeo Sindacati di Polizia (il Segretario del SAP della Valle D’Aosta ricopre anche la carica di Segretario Generale aggiunto del CESP), ha costanti contatti con il maggiore Sindacato di Polizia Sloveno PSS.

La polizia slovena è costituita da poco più di 6000 unità in tutta la Repubblica e patisce una carenza di circa 5000 agenti: un numero considerevole. Pensare che Slovenia ed Italia possano da sole affrontare un fenomeno di queste proporzioni è impensabile. La risposta deve essere data direttamente dall’Europa!

Quali sono le sue personali previsioni per il prossimo futuro? Ritiene che la situazione sul campo realisticamente migliorerà oppure peggiorerà? Esiste, visto l'acuirsi della crisi sia interna che esterna, il concreto pericolo di una perdita del controllo del territorio da parte delle autorità dello Stato?

È difficile fare delle previsioni. Interrompere un flusso così importante è molto difficoltoso. Sicuramente con delle politiche ed azioni forti si limiterebbe di molto il passaggio per questi territori, con il rischio magari di aprire nuove “vie” in altre zone.

Questo territorio dà segni di insofferenza. Molte sono state le proteste per i “passaggi clandestini” durante il COVID-19 in contrapposizione ai rigidi ed efficienti controlli che la popolazione transfrontaliera ha subito. Una situazione che ha sottoposto le forze di Polizia dei due Paesi, che lamentano appunto gravi carenze d’organico, a critiche da parte dei cittadini che le hanno accusate di non affrontare il fenomeno migratorio con le stesse forze dedicate a quello dell'emergenza sanitaria.

Una cosa è certa, si può fare di più e si deve fare di più, iniziando a dare la giusta attenzione ad un fenomeno che deve necessariamente ed in ogni modo rimanere sotto controllo.