Se l'onda della destabilizzazione investe la Mongolia

(di Andrea Gaspardo)
18/12/22

Coloro che tra noi hanno buona memoria, ricorderanno che il presente anno 2022 si è aperto con le proteste che hanno devastato Almaty, la principale città del Kazakistan. Ora mentre l'anno si sta chiudendo, un altro paese di quell'area geografica sta vivendo il suo momento di crisi socio-politica, anche se caratterizzato da una diversa genesi; stiamo parlando della Mongolia.

Paese sconosciuto ai più, schiacciato tra Russia e Cina, la Mongolia rappresenta il classico esempio di come la Storia può riservare allo stesso popolo tanto un glorioso passato quanto un futuro senza speranza.

Dalla sua indipendenza nel 1911 dalla dinastia sino-mancese dei Ch'ing, la moderna Mongolia è sempre stata un paese sottosviluppato e poco popolato (ad oggi conta poco meno di 3 milioni e mezzo di abitanti sparsi su un territorio di 1.564.116 km2) strettamente dipendente dall'Unione Sovietica prima e dalla Russia oggi per la propria sicurezza energetica e geopolitica.

Nel corso degli anni Novanta e Duemila i rapporti con il vicino cinese sono enormemente migliorati, ma il boom economico del “Dragone giallo” ha fatto sì che la Mongolia scivolasse inesorabilmente tra le braccia di Pechino.

È importante evidenziare il fatto che ben l'86% dell'export di Ulan Bator viene assorbito da Pechino, che è anche il primo partner dal lato dell'import. Ciò rende la Mongolia de facto una “colonia”, seppure non ufficialmente, della Cina.

Il principale prodotto di esportazione per lo stato mongolo è il carbone, che infatti costituisce la metà del volume del sopra citato export. Secondo quanto riportato da alcuni media locali, il colosso responsabile dell'estrazione e della vendita del carbone, la compagnia Erdenes Tavantolgoy (ETT JSC) a controllo statale, è stata negli ultimi anni coinvolta in una frode che ha comportato la sparizione di 6,5 milioni di tonnellate di carbone dal valore complessivo di 12,9 miliardi di dollari. Le tonnellate di carbone fatte misteriosamente “sparire” sarebbero state poi vendute in Cina seguendo una serie di passaggi illegali che hanno letteralmente riempito le tasche di numerosi funzionari sia mongoli che cinesi. Considerando inoltre il fatto che nei primi 9 mesi del 2022 il valore complessivo dell'export di carbone dalla Mongolia ha toccato la cifra di 4,5 miliardi di dollari, si capisce bene come la truffa abbia raggiunto proporzioni epiche per un paese così piccolo e relativamente povero.

La notizia si è ben presto diffusa a macchia d'olio e, a partire dal 4 di dicembre, il popolo è sceso in piazza iniziando a protestare. Il giorno successivo i manifestanti hanno cercato di irrompere nei palazzi del governo, venendo trattenuti a stento dalla polizia. Non riuscendovi, hanno bloccato le principali arterie stradali della capitale con falò ricavati dai roghi degli alberi di Natale. Le autorità hanno cercato di organizzare un tavolo di dialogo con i manifestanti promettendo trasparenza e la riforma della sopra citata compagnia Erdenes Tavantologoy, i cui libri contabili saranno sottoposti ad un processo di audit da parte di osservatori internazionali. Le promesse delle autorità non hanno però placato i manifestanti, i quali ad oggi continuano a presidiare le piazze domandando che i nomi dei responsabili vengano pubblicati e puniti severamente come è accaduto nella vicina Cina, laddove i funzionari corrotti implicati nello scandalo sono stati rapidamente individuati, processati e giustiziati.

È ancora presto per fare una previsione su quanto sta avvenendo nel paese che diede i natali a Gengis Khan; nondimeno è necessario continuare a monitorare anche i sommovimenti che stanno avendo luogo pure in questo angolo sperduto dell'Asia.

Fotogramma: Al Jazeera English