Non sarà certo popolare come “La fine della storia” di Fukuyama, ma questa riflessione vuole raccontare la fine di una storia, quella di ISAF. In queste poche righe non si ripercorreranno i 12 tragici anni della battaglia per l’Afghanistan, ma lo scontro tutto americano tra counterinsurgency e counterterrorism ed il suo epilogo di cui i primi sintomi si ebbero a Baghdad, ma la cui piena manifestazione si vive in queste ore a Kabul.
I due neologismi, con i quali, per quasi un decennio, si sono descritte operazioni strategie e tattiche del Pentagono, vengono partoriti a Washington e si manifestano quale contraddizione tra due modi tutti americani di percepire le relazioni internazionali quello democratico e quello repubblicano.
Il counterterrorism intriso di CIA e Tomahawks aveva affossato gli USA ed i propri alleati nel pantano irakeno, aggressività e combattimento, il ritorno alla guerra convenzionale, le giornate di Falluja e di Abu Graib, gli oltre 4000 morti di una campagna iniziata male e finita peggio, quella per la conquista dei pozzi di petrolio della mesopotamia, sono stati il principio della fine per un metodo di affrontare battaglie e campagne impostato su concetti di linearità arroccati alla guerra fredda.
Dopo un lungo peregrinare intellettuale e militare nasce la counterinsurgency con i suoi 25 capisaldi, si determina la fusione tra strategia militare ed antropologia, la conquista della mente e dei cuori, la determinazione di un ambiente amichevole in cui “occorre togliersi gli occhiali”, camminare tra la gente essere chiari e trasparenti, ottimi ospiti e geniali combattenti, pagare mazzette e chiamarle western support, il tutto con uno sguardo attento ai valori che differenziano il bello dell’occidentale dal brutto di un oriente ammalato di integralismo.
Era il tempo di McKristall e di Petraeus, di Kilcullen e Nagl, potremmo dire dei generali 2.0, gli omologhi militari del gruppo che in un garage della California creò il mito della Apple.
Questi proconsoli militari della nuova generazione, gente che aveva vissuto il pantano vietnamita e si prodigava, nel nuovo clima obamiano, a ridisegnare le strategie del pentagono, hanno cercato di combattere per un mondo nuovo in cui gli americani avrebbero potuto proporsi con la divisa dell’intellettuale, magari palestrato, di Wall Street, piuttosto che con che con quella del cowboy alla John Wayne.
Oggi la fine di ISAF, occorsa dopo cinque anni dalla fine delle operazioni militari in Irak consegna al mondo l’ennesimo fallimento della dottrina militare americana, la sbornia counterinsurgency è evaporata con i suoi generali malati di protagonismo fino all'eccesso ed il mondo è sempre lo stesso, la storia anche in questo caso non è terminata, ma si è solo complicata ed ha fornito l’ennesimo insegnamento: non bastano i decaloghi roboanti e le copertine su Rolling Stone magazine, non sono sufficienti gli annunci del primo Presidente di colore della storia USA o le coalition of willings, occorre metodo e serietà, comprensione ed empatia, insomma tutto quell'armamentario dottrinale messo in piedi dalla counterinsurgency. Forse no!
Se è vero che la dottrina Petraeus ha imposto di tirare via gli occhiali, resta il problema che Washington per troppo tempo li ha utilizzati e allora gli yankees, usciti da liberatori dopo il 2^ Conflitto Mondiale, dall’Indocina in poi sono divenuti oppressori, calcolatori e distruttori di mondi ed equilibri, pertanto è questo che va cambiato, altrimenti nemmeno 120 anni di ISAF e di counterinsurgency riusciranno a rendere qualche risultato apprezzabile.
Un bilancio negativo quello afghano, da Kabul la coalizione si è espansa su tutto il paese, si è cercato di controllare il traffico dell’oppio, ma si è dovuti tornare sui propri passi, si sono istruite e si istruiranno le forze armate del paese centro asiatico che tuttavia hanno iniziato a rivoltarsi contro i propri istruttori (fenomeno del green on blue n.d.a.) la via della seta, che sarebbe dovuta divenire la via del gas è rimasta chiusa, tanto che persino il ripiegamento del dispositivo militare, ad oggi, non riesce a godere delle via di transito su rotaia che dovrebbe passare a nord verso paesi come il Turkmenistan.
Quanto alle cose militari, il Pakistan continua a custodire le maggiori roccaforti talebane e la Shura di Quetta si fa sentire forte sulle superstiti truppe occidentali, i Pasdaran restano i migliori mentori di alcuni gruppi estremisti e nulla o quasi si è potuto su traffico di armi, droga ed esseri umani, nonché sul controllo del territorio, dove al di la delle bolle di sicurezza create e difese con battaglie inenarrabili il resto del vasto territorio rimane terra di nessuno.
Cosa c’è dietro, resta complicato da capire e costringerebbe ad assumere una posizione, non è l’intento di queste righe, chi ha vinto e chi ha perso è abbastanza evidente, l’unica domanda a cui resta una risposta da dare e per cui si ritiene di avere dato elementi sufficienti è: perché tutto ciò?
Nella drammatica certezza che nuovi Afghanistan e nuovi ISAF sono prossimi all'orizzonte, ma non esiste nessun metodo efficace per risolverli.
Andrea Pastore
(foto: U.S. Air Force / U.S. Marine Corps)