Guerra al terrorismo: quale Occidente?

(di Giampiero Venturi)
09/12/15

I nodi più frequenti in cui ristagnano i dibattiti sul terrorismo internazionale sono il ruolo e le responsabilità dell’Occidente. Finita l’analisi dello scenario, di solito si passa a quella delle cause e all’inevitabile dietrologia. Una bomba, un attentato, una richiesta d’intervento armato e il ritornello riparte.

Premettiamo che la sindrome da colpa è quasi sempre sintomo di civiltà. Più una società è avanzata, più ha attitudine a guardarsi dentro. Vien da sé che società primordiali generalmente non hanno grandi capacità di autocritica e appaiono più solide. Non a caso la dietrologia finisce spesso per sconfinare nel complottismo e ai fatti conclamati (attentati o atti di guerra reali) si sovrappongono deduzioni, pensieri e teorie da salotto che servono a poco.

Non è questa però la sede per riflettere sulla legittimità né tanto meno sul merito dei dibattiti. Il nostro spunto è un altro.

Anziché chiederci se sia necessario, utile o semplicemente giusto intervenire con le armi contro un presunto terrorismo, sarebbe interessante interrogarci su quale sia il sistema di cui ci sentiamo o non ci sentiamo parte.

È opportuno riflettere sul fatto che quando l’eco degli attentati si affievolisce aumenta il volume dello scetticismo antioccidentale fino a configurare una società simmetrica: da una parte chi crede al terrorismo e si sente oggetto di una minaccia esterna, dall’altra chi pensa che l’Occidente sia la causa di tutti i mali, quindi anche dei propri.

La dicotomia diventa ideologica e sposta l’attenzione sulle simpatie e le scelte personali di ciascuno di noi. Così si perde di vista un punto focale: prima ancora di sentirsi occidentali o antioccidentali sarebbe opportuno chiedersi a quale Occidente si fa riferimento.

La questione non è secondaria perché si può essere fortemente critici verso scelte e indirizzi dei Paesi industrializzati, senza però perdere il senso di identità e i valori che essa contiene.

Non è tanto importante stabilire se l’Occidente sbagli, ma dando per scontato che abbia commesso errori, forse è più utile capire quali siano state le linee guida e i principi a cui ha guardato negli ultimi decenni. In altri termini: esiste un solo Occidente possibile?

È universalmente riconosciuto che dopo gli accordi di Bretton Woods nel ’44, la sala di comando del mondo che conta sia passato dall’Europa all’America. L’elezione del dollaro a valuta di riferimento è stato un passaggio non solo fisico, ma anche simbolico, legato a doppio filo agli eventi politici che avrebbero segnato il pianeta fino ai nostri giorni: il mondo a guida coloniale franco-britannica, abdicava in favore dell’altra sponda dell’Atlantico, determinante per stabilire gli esiti della Seconda Guerra Mondiale (Bretton Woods accadeva un mese dopo lo Sbarco in Normandia). La nascita della NATO solo 4 anni dopo ne sarebbe stata la conferma sul piano militare.

Senza entrare nel dibattito storico, l’obiettivo della nostra analisi è chiederci se dopo 25 anni dalla fine della Guerra Fredda, il timone che ha segnato la rotta dell’Europa (culla del pensiero occidentale), debba essere ancora lo stesso.

La nostra riflessione appare sensata se consideriamo che nei Paesi europei ci si è talmente abituati ad essere pensiero derivato non più titolare di interessi diretti, da diventare schiavi di senso di colpa e autolesionismo.

Facciamo un esempio con riguardo alla geopolitica: parliamo di ISIS e di destabilizzazione in Medio Oriente. Se consideriamo le conseguenze tragiche della guerra in Iraq del 2003 di solito siamo abituati a interpretare i fatti solo in due chiavi: chi crede che la guerra sia stata giusta sposando le scelte politiche dell’amministrazione Bush; chi crede che l’Occidente abbia sbagliato a fare la guerra, come sempre. L’idea che la guerra fosse sbagliata soprattutto perché contraria ad un interesse occidentale, di solito passa inosservata o in secondo piano.

In sintesi, se l’Occidente coincide con gli Stati Uniti e l’insieme di valori che rappresentano, quale che sia l’orientamento assunto (filo o antioccidentale), noi europei finiamo sempre per scegliere secondo interessi di qualcun altro. Questo dualismo sarà ancora più evidente qualora alle presidenziali del 2016 tornasse un’amministrazione repubblicana, non più obbligata a nascondere gli interessi geopolitici americani dietro veli di una demagogia pacifista. La scelta sarebbe a quel punto ancora più polarizzata: USA o terzomondismo, tertium non datur.

Da Bretton Woods e Yalta sono passati più di 70 anni e sono cambiate molte cose. Il mondo forse dovrebbe rivedere i suoi equilibri e tornare a farsi domande. L’Europa in particolare dovrebbe chiedersi se esiste ancora.

(foto: US DoD)