La Conferenza di Palermo: non un flop, ma un aborto (senza nemmeno una dichiarazione finale)

(di David Rossi)
14/11/18

Il premier Giuseppe Conte appare sfinito, ma raggiante: l’accordo sottoscritto dai “5+1” a Palermo probabilmente segnerà una pagina di storia delle relazioni internazionali e la foto finale entrerà di diritto tra le più famose della Storia con la esse maiuscola, come quelle dei presidenti americani a Camp David con al-Sadat e Begin nel 1978 e a Oslo con Rabin e Arafat nel 1993.

Non nasconde un sorriso sornione: probabilmente, di lì a un anno, sarebbe entrato anche nell’olimpo dei Premi Nobel per la Pace. Un bel riconoscimento da inserire nel curriculum… D’altronde, se lo era pure guadagnato durante tre mesi di sforzi “matti e disperatissimi”, sparendo dall’orizzonte della politica italiana per dedicarsi, muovendosi in sordina, a tessere una ragnatela per la stabilizzazione definitiva della Libia.

La sede scelta per i colloqui informali era stata Castel Gandolfo, col palazzo dei papi messo a disposizione dalla Santa Sede insieme a una serie di buoni uffici con i Paesi arabi e Africani che l’Italia aveva purtroppo smarrito da tempo, ma che dalle parti del Portone di Bronzo, si sono sempre coltivati sapientemente. Così, dalla fine di luglio era cominciato un via vai di elicotteri tra i Castelli romani e le capitali del Medio oriente. Certi movimenti della Sesta flotta degli Stati Uniti a largo delle coste libiche erano arrivati come altrettanti telegrammi per i capi clan di quel Paese: il fallimento della conferenza di Palermo, fortemente voluta dall’Italia, avrebbe comportato un uso massiccio della forza militare contro le parti meno ragionevoli, accusate di essere sponsor del terrorismo. E avrebbe lasciato la Libia senza le infrastrutture petrolifere, militari e civili. Il giustificativo sarebbe stato proprio il rifiuto di adeguarsi alla decisione di Washington…ops, della Comunità internazionale.

In quei mesi, Conte aveva pensato spesso, tra sé e sé, che Dio solo sapeva come aveva trovato il coraggio e le parole per coinvolgere il presidente Trump in questa campagna! Ci era riuscito non proponendo scambi innominabili, ma semplicemente sfidandolo: se la diplomazia romana avesse fallito, avrebbe servito al tycoon la scusa per ringalluzzirsi davanti all’opinione pubblica americana, vendicando l’attacco al consolato americano di Bengasi, come il suo predecessore non era, in fondo, riuscito a fare. A onor del vero, la consegna di un certo numero di terroristi da parte dei clan era tra le condizioni sul tavolo. Ma in fondo alla pila dei documenti...

L’idea era quella di una “cantonizzazione” della Libia, con la divisione del territorio, delle risorse e delle forze militari su base semi tribale, evitando la ricostituzione di una leadership forte ma favorendo la partecipazione al potere attraverso un direttorio i cui membri sarebbero rimasti in carica per due anni, con funzioni di Governo, oltre a un Parlamento eletto direttamente, con la sovra-rappresentazione delle minoranze e di fatto la necessità di maggioranze qualificate. Di fatto, i vertici dei clan maggiori avrebbero ripartito/spartito le risorse, con una serie di garanzie, assicurando ai maggiorenti tempo sufficiente per arricchirsi e poi sparire dalla scena, come accadeva in Messico coi presidenti del PRI. Ma soprattutto escludendo i reciproci “sponsor” dallo scorrazzare liberamente tra Cirenaica, Tripolitania e dalle regioni desertiche: l’accesso al territorio e alle risorse libiche sarebbe stato possibile per gli investitori puri. A questo scopo, ci sarebbe stata una conferenza, da tenersi a Nizza entro sei mesi, per pianificare gli “investimenti”, secondo una logica semplice ma efficace: le “sfere di influenza” sarebbero state mantenute, ma de-militarizzate e limitate nello spazio perché nessuno potesse “lanciare un’OPA” sull’intera Libia o su una parte sostanziale di essa.

Quanto alle armi in troppo abbondante circolazione nel Paese, sarebbero state consegnate, su base tribale, in cambio di denaro e della possibilità di competere alle elezioni e partecipare al direttorio. Cinque Paesi si sarebbero fatti “moralmente” garanti (ufficialmente, dell’indipendenza della Libia, nella sostanza degli accordi sulle sfere di influenza / investimenti): Turchia (anche per conto del Qatar), Russia, Francia, Italia e Arabia Saudita (anche per conto dell’Egitto). Al Cairo e a Algeri venivano garantiti 500 km di zona demilitarizzata e no-fly all’interno del territorio libico, oltre a esponenti di spicco del direttorio scelti tra gli “amici”. Sesto garante sarebbero stati gli stessi USA, che avrebbero mantenuto il diritto di intervenire in caso di qualsiasi violazione degli accordi.

Conte già pensava al futuro premio Nobel quando… si svegliò. La conferenza di Palermo era stata una simpatica passerella di capi e capetti libici, insieme a leader internazionali svogliati e poco convinti, intervenuti solo per mettere la mano sulla spalla dei loro “mantenuti”. Solo la mossa da drama queen della Turchia, col ritiro della delegazione, aveva dato un po’ di colore a un evento grigio e prevedibile, persino privo di un pezzo di carta finale1.

Che brutto risveglio, Mr. Premier!

  

1 Il portavoce del premier, l’ex GF Rocco Casalino (quello che “i down mi disturbano”), si è affrettato a definire “vincolante” un impegno orale. Che equivale a una sciocchezza clamorosa.

(foto: Presidenza del Consiglio dei Ministri)