Nel 2006 il segretario della Difesa Donald Rumsfeld avviò le procedure per la creazione dell’Africa Command (AFRICOM), un organismo militare specialmente dedicato alle problematiche del continente africano. Nel 2007, dopo un anno di lavoro, il presidente George Bush approvò in via definitiva il progetto di Rumsfeld consentendo di fatto l’ingresso militare americano in Africa. Sebbene la parte burocratica fu svolta con relativa semplicità, la creazione dell’AFRICOM generò una serie di interrogativi su quale ruolo avrebbe assunto l’America in quella delicata parte del globo. Ma soprattutto, cosa determinante ai fini della riuscita del piano, era domandare ai principali leader africani quale fosse la loro opinione circa l’ingresso degli Stati Uniti nei loro affari militari. Le risposte non si fecero attendere e dalle prime relazioni con i capi di stato dell’Unione Africana apparve chiaro che nessuno di loro vedeva di buon occhio l’arrivo dei militari americani e la condanna ufficiale avvenne all’incontro di Addis Abeba nel gennaio del 2008. Secondo il parere espresso da molti capi di stato africani, l’operazione AFRICOM nascondeva qualcosa di poco chiaro e l’iniziativa americana non pareva così disinteressata. I leader africani insinuarono, infatti, che il presidente Bush voleva allungare le mani sulle risorse naturali del Paese, ma soprattutto sfruttare i giacimenti petroliferi ponendosi come diretto concorrente della Cina.
La risposta americana
L’amministrazione Bush doveva creare un consenso intorno al progetto AFRICOM chiarendo all’opinione pubblica, ma soprattutto ai partner africani, quale sarebbe stata la vera missione americana. Anche in questo però il messaggio della Casa Bianca apparve subito confuso poiché in qualche circostanza si parlò di azioni dirette contro il terrorismo, mentre in alcuni casi soltanto di consulenza o assistenza alle forze armate indigene. Il comando africano aveva bisogno di una legittimazione diversa e questo sarebbe stato possibile soltanto attraverso un coinvolgimento multiruolo nell’operazione AFRICOM. Il 1° agosto 2007, Jendayi Frazer, assistente del segretario di Stato, propose che il comando africano, a differenza degli altri comandi militari, fosse integrato con personale del Dipartimento della Difesa, del Tesoro e dei ministeri per l’Agricoltura e il Commercio. L’Africa aveva – secondo lui – bisogno di un approccio diverso che appassionasse i governi ospitanti su diversi piani d’intervento, non solo quello militare.
All’inizio del 2008 la maggior parte dell’establishment africano non aveva ancora chiaro quali fossero i reali obiettivi della Casa Bianca; dal canto suo il presidente Bush aveva dichiarato pubblicamente che lo scopo di AFRICOM era aiutare l’Africa a provvedere alla propria sicurezza, senza alcun interesse commerciale legato ai giacimenti.
AFRICOM diventa operativo
Esattamente 34 giorni dopo l’elezione di Barak Obama a presidente degli Stati Uniti, il 1° ottobre 2008, la creatura plasmata da Rumsfeld divenne operativa. Da quel momento in poi tutte le relazioni con il continente africano – ad esclusione dell’Egitto rimasta competenza del CENTCOM – caddero sotto la responsabilità dell’AFRICOM. Il primo comandante designato fu il generale a quattro stelle William Ward (foto) che vantava un curriculum d’eccellenza come comandante dello European Command (EUCOM).
Ufficialmente la missione primaria di AFRICOM era di natura militare: assistere e addestrare le forze armate degli stati africani alla sicurezza entro i loro rispettivi confini, incoraggiando la cooperazione internazionale soprattutto in funzione anti terrorismo. AFRICOM avrebbe inoltre sovrainteso alle azioni della Combined Joint Task Force – Horn of Africa (formata nel 2002) e alle iniziative nel settore dello Sahel. Oltre a questo, l’organizzazione militare americana si sarebbe fatta carico dell’assistenza umanitaria nei settori più critici del continente, curando l’istruzione, ma soprattutto l’assistenza medica contro la diffusione dell’HIV e altre malattie contagiose (Pandemic Response Program).
Contro il terrorismo
Ad oggi, l’area di responsabilità dell’AFRICOM tocca ben 53 Paesi i quali presentano svariati problemi sia di natura militare, sia umanitaria. I gruppi terroristi minacciano la stabilità del continente africano in quattro aree circoscritte: Nord Africa (Libia e Maghreb), Sahel, Africa Orientale e Occidentale. In questi ampi e desolati territori agiscono, pressoché indisturbate, alcune fra le organizzazioni jihadiste più temute: al-Shabaab, AQIM (al-Qaeda in Islamic Maghreb) e Boko Haram sin da subito degno emulatore dello Stato Islamico sorto in Iraq e Siria.
Il programma ACOTA (Africa Contingency Operations Training and Assistance) è il cardine attorno al quale ruota l’operatività di AFRICOM che fornisce ai partner africani tutto il know-how necessario affinché ciascuno Stato coinvolto nella lotta contro il terrorismo sia in grado di affrontare autonomamente ogni contingenza.
In stretta connessione con l’ACOTA vi è il piano ADAPT (Africa Deployment Assistance Partnership Team) utile ad ottimizzare le capacità logistiche delle forze armate per le operazioni controterrorismo, le missioni di peacekeeping e di sostegno umanitario. In questi ultimi mesi l’AFRICOM è salito alla ribalta della cronaca dopo che quattro membri delle Forze Speciali americane sono stati trucidati in Niger, nella regione dello Sahel, una delle più ostili di tutta l’Africa (v.articolo). In quell’area Boko Haram, l’ISIS Africa Occidentale, ISIS Greater Sahara, Jamaat Nursat al-Islam wal-Muslimim (JNIM) e altri piccoli gruppi affiliati fuori controllo, seminano il terrore tra le comunità locali.
La morte dei quattro operatori americani ha causato un certo imbarazzo al direttivo di Trump il quale ha mostrato qualche impaccio a fornire adeguate spiegazioni ai media. Dopo un susseguirsi di conferme e smentite su cosa effettivamente facessero i Berretti Verdi in Niger, fu subito chiaro che sugli scopi di AFRICOM si sapesse molto poco. I militari caduti erano parte integrante di un programma di Military Assistance fornito alle Forze Armate Nigerine; inoltre, proprio in Niger gli americani avevano da tempo stabilito una base di supporto ad Agadez.
Gli ultimi scenari internazionali confermano come l’Africa sia il futuro terreno sul quale si giocherà l’eterno confronto coi terroristi islamisti. A questo proposito il comandante di AFRICOM, generale dei Marines Thomas D. Waldhauser ha ribadito al Comitato del Senato per la Difesa gli scopi della missione africana: “The U.S. interests in Africa are reflected in our mission statement. AFRICOM, with partners, strengthens security forces, counters transnational threats and conduct crisis response in order to advance U.S. national interests and promote regional security, stability and prosperity in Africa”. Le parole del comandante dei Marines hanno poi ricordato gli operatori deceduti in Niger e il SEAL in Somalia, la cui morti destarono scalpore presso l’opinione pubblica americana.
Quale sia il ruolo degli Stati Uniti in Africa rimane ancora una questione aperta poiché sembrano sovrapporsi interessi di natura militare ed economica. Senza dubbio l’amministrazione Bush, seguita da Obama e ora Donald Trump persevera nel dimostrare ambiguità e poca trasparenza riguardo l’Africa: appare sempre più lampante che sotto il mantello della lotta al terrorismo si celino interessi nazionali la cui difesa val bene la vita di qualche marine.
(foto: U.S. Air Force / U.S. DoD / CNN)