Nella reazione cinese all’emergenza COVID-19 sono emersi tratti dell’autorità tipici di quel paese che da tempo preoccupano le cancellerie occidentali.
All’inizio, due aspetti hanno colpito più di ogni altro la nostra attenzione: la mancanza di trasparenza sulle effettive origini del virus, che ha fatto perdere tempo prezioso al tentativo globale di arginarne gli effetti, e il “dispotismo autoritario” verso quanti - medici , giornalisti o solo semplici cittadini - cercavano di mettere il mondo in allarme, e che per questo sono finiti nelle prigioni di stato o, come nel caso degli inviati1 del Wall Street Journal e del Washington Post, rispediti a casa.
È seguita poi una fase di contenimento interno dell’emergenza, con la veloce predisposizione di ospedali da campo e l’isolamento di intere regioni, durante la quale, con il crescere delle critiche in patria e all’estero, Xi Jinping è per un pò sparito dalla ribalta, delegando le uscite al suo primo ministro, Li Keqiang, non prima però di aver avviato la potente macchina della censura allo scopo di mondare WeChat e Weibo, i principali sociali cinesi, delle numerose critiche interne.
Infine, la fase (ancora in atto) dell’iniziativa diplomatica, che ha visto Xi interamente dedito a scrollare di dosso dal paese la fama di untore mondiale, grazie a quella accorta “diplomazia delle mascherine” di cui abbiamo già scritto (v.articolo).
Così facendo, in meno di un mese, la rabbia per l’ennesimo virus cinese ha lasciato spazio a un sentimento di gratitudine per gli aiuti di Pechino (anche se in molti casi risultati scadenti), e di segreta ammirazione per l’efficienza del soccorso e l’immediatezza della capacità decisionale.
Caratteristiche, queste, tanto ammirate a Occidente quanto contrapposte al carattere frammentario, scoordinato e in molti casi tardivo delle iniziative provenienti dai governi “nazionali”, stretti tra i bisogni di salute pubblica, le preoccupazioni per le economie, e, non ultimo, il bisogno di assecondare le pubbliche opinioni.
La capacità cinese di gestione del Covid ci è quindi apparsa in tutta la sua tipicità, evidenziando ancora una volta la profonda differenza con i nostri sistemi sociali e politici.
Ha riproposto l’immagine di un Oriente classico (Rampini2, 2020) fatto di masse sterminate di individui perfettamente allineati a un potere centralizzato, la cui unica vocazione è quella di essere parte attiva di una entità più grande, sovraordinata - la massa, il Partito, lo Stato o solo anche la società - cui sacrificare senza domande la propria individualità.
È questo un’Oriente che ci affascina e ci tormenta - noi così intimamente legati alle nostre libertà individuali -, sin da quando Erodoto raccontava le guerre dei Greci contro i Persiani, soverchiante messe umana di guerrieri ammassati lungo le coste dell’odierna Turchia.
Guerre all’epoca vinte in disparità di forze, secondo una narrazione che già al tempo opponeva al numero e alla organizzazione degli orientali, i “valori" delle piccole città stato elleniche.
Massa contro individuo, Oriente contro Occidente.
Ci affascina e ci tormenta, dicevamo, oggi ancor di più, perché nei più attenti fra noi è già presente la chiara percezione che il mondo sia ormai cambiato.
Che sia ormai giunto a termine il mezzo millennio di supremazia globale, che ha assicurato a quella piccola appendice eurasiatica che di fatto è l’Europa (e alla sua emanazione geopolitica del nuovo mondo) il dominio incontrastato del pianeta.
Di fronte a noi non più i Persiani, ma la grande Cina, una realtà geopolitica bimillenaria che ha ricominciato a reclamare la sua esclusività allo stesso modo con cui lo faceva ai tempi della Dinastia Han (206AC - 220DC), epoca in cui giunse a governare il 40% della popolazione mondiale.
Se l’Occidente è oggi molto altro rispetto a quello dei tempi di Socrate, di Giulio Cesare, di Federico II, di Carlo V, di Marco Polo ecc., la Cina, pur nella parentesi rivoluzionaria dell’ultimo secolo (nel 1921 nasce il PCC e nel 1949 la Repubblica Popolare), è rimasta intimamente e culturalmente imperiale e confuciana.
Tolto il decennio della rivoluzione culturale di Mao (1966-1976), è infatti sempre stata fedele a una tradizione culturale raffinatissima e avanzata, che porta in dote le invenzioni della polvere da sparo, dei caratteri mobili, così come quelle conoscenze cartografiche e di navigazione marittima che, una volta passate in mani portoghesi e spagnole (con grande ruolo di fiorentini, veneziani e genovesi) diedero inizio all’era moderna.
Forse è solo un caso che la Modernità abbia avuto inizio per mano occidentale.
I cinesi avevano da tempo avviato campagne di esplorazione dell’oceano indiano, con un ammiraglio, Zheng He3, che al comando di 317 navi e di circa 28.000 marinai - (fa impallidire il raffronto con le tre caravelle di Colombo e i suoi 90 uomini di equipaggio) - raggiunse le coste indiane e arabe spingendosi sino a quelle della Somalia, salvo poi doversi fermare per ordine dell’imperatore, preoccupato dai costi eccessivi dell’impresa.
La storia prese poi una diversa direttrice, che permise gradualmente alle potenze europee del tempo (Regno Unito, Portogallo, Spagna, Paesi Bassi, Francia) un incontrastato dominio economico, militare e geopolitico.
La prima (XVIII secolo) e la seconda rivoluzione industriale (XIX secolo) in Inghilterra e nel resto dell’Occidente fecero poi il resto, incardinando a ovest un primato che durerà per tutta la terza rivoluzione industriale (quella digitale iniziata nell’ultimo quarto dello scorso secolo).
Fu proprio a partire dall’epoca delle esplorazioni, che lo splendido (autoreferenziale) isolamento della “Terra di Mezzo” iniziò a vacillare, e con esso l’enorme surplus commerciale che da secoli deteneva nei riguardi dell’ovest (seta e spezie in cambio di argento).
Tagliata fuori dal nuovo mondo, entrò in quello che la sua storiografia definisce come il “periodo delle umiliazioni”, culminato con le guerre dell’oppio (1839-1842 e 1856-1860).
A noi, oggi, il privilegio di assistere ad un nuovo cambio di passo della storia, la cui prua ritorna a est.
Con un curioso parallelismo. Così come l’Occidente deve il predominio degli ultimi cinque secoli alle conoscenze cinesi nel campo della navigazione e delle carte nautiche, oggi “il Dragone” celebra la sua “rinascita” proprio grazie alla globalizzazione, figlia di quel mercantilismo, di forgia europea, prodotto dall’era moderna.
Sfruttandone sapientemente le potenzialità, da Deng Xiaoping (1978-92) in poi, la Cina è prima diventata la “fabbrica del mondo” - strappando, in un trentennio, 750 milioni di persone alla povertà -, e poi “player globale” nel campo dell’intelligenza artificiale e della robotica, in questo agevolata da quelle caratteristiche tutte orientali di centralizzazione politica e dirigismo economico.
Sicché oggi guardiamo ad essa come il protagonista della quarta rivoluzione industriale (big data, intelligenza artificiale, algoritmi, cloud, potenza di calcolo) proprio come il Regno Unito lo fu nelle prime due (e gli USA nella seconda e terza).
Una potenza geopolitica in ascesa, in seno alla cui nomenklatura fortemente radicato è il convincimento di un Occidente giunto al capolinea, privo di un ruolo nel futuro processo storico.
Da cui deriva la necessità di modificare integralmente l’ordine internazionale, in un modo funzionale ai nuovi interessi, esterni e interni di Pechino.
Quello attuale, fondato sugli accordi di Bretton Wood del 1944, e presidiato da istituzioni finanziarie (Fondo Monetario e Banca Mondiale in primis) che “parlano esclusivamente inglese”, è l’immagine plastica di un mondo ormai prossimo al suo epilogo.
1 https://www.repubblica.it/esteri/2020/03/17/news/cina_stati_uniti_libert...
2 “Oriente Occidente, Massa e individuo” di F. Rampini. (Einaudi, 2020)
3 https://it.wikipedia.org/wiki/Zheng_He
Foto: Ministry of National Defense of the People's Republic of China / presidenza del consiglio dei ministri / Xinhua