L’impiego delle nuove tecnologie offensive, in grado di colpire ed annientare un dispositivo militare prima ancora che esso sia giunto a distanza d’ingaggio con il nemico, la sempre maggiore interconnessione tra impiego della massa fisica/potenza di fuoco concentrata e dispersione delle forze, nonché la necessità di ridurre il potenziale di letalità delle armi disperdendo le proprie forze, hanno riportato in auge il concetto tattico di empty battlefield (campo di battaglia vuoto) sull’onda della guerra in Ucraina.
Una delle principali critiche mosse alla situazione di empty battlefield negli anni passati – ed in parte tutt’ora – è legata al fatto che la dispersione dei soldati su un campo di battaglia esteso riduca le capacità di comando e controllo da parte degli ufficiali, non solo al livello di battaglione – che è quello più elevato considerato dalla teoria – ma anche di compagnia e plotone. La dispersione delle forze in campo manterrebbe, dunque, la caratteristica di una reazione eminentemente passiva di sopravvivenza del soldato rispetto all’aumentata letalità e precisione dei sistemi d’arma impiegati. Questa è la reazione che la teoria statunitense della “Empty battlefield XXI” ha definito “estensione passiva”.
Tuttavia, i miglioramenti tecnologici su funzioni ed equipaggiamenti di comando e controllo, potenza di fuoco, navigazione e mobilità terrestre ed aerea e visione notturna hanno diametralmente ridimensionato lo “scollamento percepito” tra ufficiali e soldati in caso di estensione e dispersione, imprimendo, invece, una svolta a favore di questi fattori sul campo di battaglia. In uno scenario empty, le forze di fanteria potrebbero estendersi “attivamente” per ottenere un vantaggio tattico notevole. A tal proposito, è bene evidenziare come, al livello di pianificazione, proprio a causa di questi fattori, si sia passati dalla sequenzialità alla simultaneità del ciclo operativo tattico.
Questo lo si è notato non solo in combattimenti in scenario urbano (che rispondono a caratteristiche proprie) ma anche in campo aperto, dove la fanteria in formazioni chiuse – come impiegata per sfruttare la massa fisica dai russi – hanno avuto spesso la peggio contro drappelli in “estensione attiva” e che agivano con funzione di “schermagliatori”. Infatti, è attraverso la dispersione controllata che la fanteria leggera ha recuperato il proprio ruolo fondamentale nelle battaglie tra forze convenzionali che, si pensava, l’avanzamento tecnologico avrebbe compresso e non ampliato.
In un certo senso, lo sviluppo tecnologico ha consentito il superamento dei rischi connessi alla dispersione “passiva” delle forze che scrittori come il prussiano Wilhelm von Scherff (1876) o il britannico George Francis Robert Henderson (1898) avevano denunciato, anche alla luce di esperienze drammatiche come le battaglie di Gravelotte/Saint-Privat (1870) e Abu-Klea (1885). Però, già episodi della guerra anglo-boera, come le battaglie di Tugela e Spioenkop, o di quella russo-giapponese, come la battaglia di Mukden, avevano evidenziato la possibilità di sfruttare attivamente i vantaggi offerti da una dispersione delle forze sul campo. Casi che, alla luce di una sbilanciata ricerca di potenza di fuoco tramite la massa, non erano stati presi in considerazione, determinando il predominio dell’attrito nelle due guerre mondiali.
Le conquiste tecnologiche hanno rivoluzionato il rapporto tra forza impiegata e spazio del campo di battaglia, così come è cambiata l’idea di comando e controllo da parte degli ufficiali e/o dei comandanti di piccole unità a fronte di una sempre maggiore “estensione attiva” delle forze in battaglia. La tecnologia ha sbiadito il confine, prima netto, tra la “passiva” ricerca della sopravvivenza e dell’efficienza operativa e la “attiva” conquista del vantaggio tattico.
Foto: X (Ukraine MoD)