La Marina ha reso noto un documento dove sintetizza la visione della Forza Armata circa lo strumento marittimo del futuro, focalizzandone gli aspetti più preminenti e indicandone l’indirizzo per lo sviluppo e la gestione di capacità ad elevato contenuto tecnologico.
L’insieme di queste capacità costituisce il Future Combat Naval System 2035, il quale rappresenta per la Marina Militare l’elemento cardine dello strumento marittimo destinato a fronteggiare i futuri teatri operativi. Tali strumenti saranno sviluppati attraverso un processo capace di adattarsi dinamicamente all’innovazione, recependone sfide e opportunità.
Alcuni punti del documento possono essere oggetto di una ulteriore analisi.
Evoluzione delle capacità nel Multi-Domino
Nella sua logica di sviluppo, il Future Combat Naval System 2035 dovrà disporre, nel suo complesso, di capacità di difesa antimissile per intercettare missili ipersonici e balistici, in modo da assicurare la protezione del territorio e della popolazione rispetto ai rischi collegati con la proliferazione della minaccia balistica.
I piani della Marina per la costruzione di due cacciatorpediniere da 10.000 t di dislocamento (DDX), in sostituzione della classe Durand de la Penne, dovrebbero supportare tale prospettiva (la JMSDF, Japan Maritime Self Defence Force, dispone per questo scopo di 28 cacciatorpediniere lanciamissili). Tuttavia il numero esiguo di unità non permetterebbe una copertura capillare del territorio nazionale, né al momento si ha una conoscenza certa del numero di celle VLS che saranno installate a bordo. La spesa prevista per il programma si aggira intorno ai 2,7 miliardi di euro, oltre ai costi per le apparecchiature elettroniche e l’armamento.
Unità di tali dimensioni dovrebbero avere più di 100 celle VLS, nelle quali alloggiare missili superficie-aria (Aster-15/Aster-30 Block 1N), missili antinave (Teseo Mk-2/E) e missili da crociera (Scalp Naval). Quest’ultimi, attualmente, non sono nei programmi della Marina (né tantomeno in quelli del decisore politico).
Purtroppo esiste il serio rischio di varare due unità dai costi elevatissimi, anche in termini di logistica e manutenzione, senza averne un ritorno strategico.
Il ruolo cruciale dell’Unmanned
In tutti gli ambienti che costituiscono la complessa e articolata dimensione marina, inclusi anche gli scenari in cui operano le forze speciali, i sistemi unmanned e autonomi avranno un ruolo sempre più cruciale, sia come minaccia sia come risorsa. La relativa acquisizione dovrà pertanto procedere con la massima priorità.
La Marina Militare ha in programma di acquisire 14 velivoli non pilotati, tra i candidati il Boeing ScanEagle (già in servizio presso la Marina Militare), il Ruav Leonardo AWHero, ma anche una variante VTOL (Vertical Take Off and Landing) non pilotata (o a pilotaggio opzionale) dell’ultra leggero sportivo Blackshape Prime, capace di operare tanto da navi a ponte continuo quanto da navi a ponte discontinuo ed equipaggiato con pod modulari per una varietà di missioni.
In tutti i casi si tratterebbe di velivoli con compiti di sorveglianza e ricognizione, privi di capacità d’attacco. Mentre sarebbe opportuno dotarsi delle c.d. munizioni vaganti (Loitering Ammunition), lanciabili dalle unità navali, come quelle prodotte dalla UVision e già selezionate dal COFS, nella versione Hero Tactical.
In pratica si tratta di un documento che impone la necessità di acquisire capacità assai importanti nei futuri scenari operativi cui dovrà far fronte la Marina Militare, pena la totale marginalizzazione del Paese (se non peggio).
È altresì vero che contestualmente si dovrebbero affrontare alcune criticità di non secondaria importanza. Una su tutte il personale! Nei prossimi anni il numero dei marinai si dovrebbe attestare intorno alle 25.000 unità (conseguenza della Legge 244 del 2012, meglio conosciuta come Legge Di Paola). Già nell’ottobre 2020, l’allora capo di stato maggiore della Marina, Cavo Dragone, aveva “denunciato” il problema della mancanza di equipaggi di fronte alla Commissione Difesa della Camera. Una nuova “Legge Navale”, vista la collocazione geografica dell’Italia, dovrebbe prevedere un sostanziale aumento degli organici.
Inoltre si dovrebbe riflettere in modo serio sulla necessità di rinunciare al gruppo di volo imbarcato. La portaerei Cavour non è altro che una portaelicotteri adibita a piattaforma per velivoli imbarcati V/STOL e STOVL (ad ala fissa e rotante).
La scelta, obbligata, dell’F-35B come sostituto dell’AV-8B Harrier II Plus non ha certo risolto il problema del payload. Il Cavour, essendo una nave a propulsione convenzionale, non ha la potenza sufficiente per azionare una catapulta (CATOBAR) e consentire a un caccia di decollare a pieno carico. Quindi sarebbe stato inutile per la Marina acquisire l’F-35C (che può vantare prestazioni superiori rispetto alla versione STOVL).
Stesso discorso per la Royal Navy. La Queen Elizabeth e la Prince of Wales, sebbene siano delle portaerei “vere”, con un dislocamento di 65.000 t, dispongono di una propulsione convenzionale. Tuttavia la RAF e la Fleet Air Arm sopperiscono a tale limitazione con il numero, infatti, a regime, potranno disporre di 70 F-35B (il Cavour, al massimo, ne potrà imbarcare 8/9).
Una possibile alternativa potrebbe essere quella di cedere le 15 macchine STOVL acquisite all’Aeronautica Militare e costituire uno stormo interforze con la Marina (sul modello del 41° ma con maggiore integrazione). Il Cavour diventerebbe così, a tutti gli effetti, una LHD (Landing Helicopter Dock) imbarcando 4/5 F-35B (lo stesso varrebbe per il Trieste) a seconda delle operazioni da svolgere.
In sostanza, puntare a una evoluzione tecnologica, da parte della Marina Militare, delle capacità Multi-Domino sarà assolutamente doveroso ma si dovrebbe farlo guardando di più alla Heil HaYam HaYisraeli (Marina Militare israeliana, leggi articolo) e meno alla Royal Navy.
Foto: Marina Militare / Difesa Online