L’Egitto prende una posizione chiara nelle parole ma ambigua nei fatti sulla Libia: “Sirte ed Al-Jufra sono una linea rossa da non oltrepassare” ha detto il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi rivolto alle sue truppe schierate nella base aerea di Sidi el-Barrani, al confine con la Libia, minacciando un intervento armato diretto oltreconfine per tutelare il Parlamento di Tobruk ed il maresciallo Haftar.
Il presidente-generale del Cairo è conscio dei rischi che l’Egitto correrebbe qualora le forze tripoline – coadiuvate dai turchi – sfondassero il fronte a Sirte aprendosi la strada verso la “mezzaluna petrolifera” della Cirenaica. Il rischio per la sicurezza nazionale egiziana secondo al-Sisi ed il suo Ministro degli Esteri, Sameh Shoukry, è concreto ed è il frutto del “dispiegamento di milizie in Libia da parte della Turchia”. Shoukry ha concluso dichiarando che “i tentativi di mettere fine militarmente al conflitto libico non riusciranno” e che il Cairo, pur valutando come extrema ratio l’opzione militare, sostiene fermamente la soluzione politica della guerra previa negoziazione, sponsorizzata dalla Lega Araba.
Nel frattempo né al-Sarraj né Erdogan sembrano essersi impressionati per le parole di al-Sisi ed hanno proseguito risolutamente l’offensiva contro Sirte fino a spezzare la linea di difesa haftariana, ultimo baluardo prima di un duro assedio alla città natale di Gheddafi o di una sua consegna pacifica alle truppe tripoline.
Nonostante le diversità di prospettive all’interno dell’esecutivo tripolino, con il vicepremier Ahmed Maiteeg propenso ad una tregua ed il ministro dell’Interno Fathi Bashaga a capo dei “falchi”, su una cosa i collaboratori di al-Sarraj concordano: la situazione deve tornare quella precedente alla campagna militare di Haftar iniziata nel 2019 e questo prevede una ritirata completa degli haftariani in Cirenaica quindi l’abbandono – con o senza spargimento di sangue – di Sirte e di Al-Jufra.
Proprio l’azione offensiva dei turco-tripolini sembra essere la cartina al tornasole che smaschera tutta la debolezza politica egiziana in questa fase del conflitto libico. Valutato infatti il rischio di essere estromessi dalla proxy war libica dopo gli interventi turco e russo, gli egiziani hanno proposto una mediazione prontamente accettata da un Haftar con l’acqua alla gola ma respinta da al-Sarraj.
Nonostante la proposta di al-Sisi sia svanita nel giro di 24 ore, passando quasi inosservata sulla stampa internazionale, di fatto il rifiuto di Tripoli ha segnato una grave sconfitta per l’Egitto costretto ad alzare la voce e minacciando, con il discorso presidenziale di Sidi el-Barrani, di entrare in armi in Libia e tracciando una ipotetica “linea rossa” tra Sirte ed Al-Jufra da non oltrepassare che equivale non tanto ad un potenziale casus belli quanto ad un nuovo confine geografico. Questo perché fin dall’inizio della seconda guerra civile libica nel 2014, l’Egitto non ha mai fatto mistero di preferire la spartizione del Paese in due distinte entità statali (lasciando la regione del Fezzan alle scorribande dei tuareg alleati dei jihadisti) soggette ad influenze esterne ben definite mettendo una chiara ipoteca sul futuro della Cirenaica che, all’epoca, nel conflitto faceva la parte del leone.
L’intervento armato turco ha – politicamente e militarmente – sparigliato le carte sul tavolo cogliendo in contropiede praticamente tutti gli attori internazionali a vario titolo impegnati in Libia. La stessa diplomazia egiziana non ha più potuto portare avanti la sua politica “unilaterale” in Libia cercando costantemente il sostegno d’un organismo sovranazionale importante ma sfilacciato come la Lega Araba. Dopotutto la presenza sul campo di soldati regolari turchi ha imposto qualche seria riflessione al Cairo sulla possibilità d’intervento militare diretto che equivarrebbe a scoprire un bluff sulla capacità combat delle Forze Armate egiziane qualora dovessero essere impegnate contro il secondo più numeroso esercito dell’Alleanza Atlantica, al di là dei missili schierati in bella mostra a Sidi el-Barrani a beneficio dei satelliti open source e della macchina della propaganda.
Uno scenario di cui dubitare ma che, per pura teoria da war game, lascia emergere tutte le contraddizioni ed i rischi per al-Sisi di una politica più attiva in Libia, volta alla salvaguardia della Cirenaica indipendente (ma soprattutto fuori dall’influenza turca). L’obiettivo a breve termine di al-Sisi è quello di “salvare il salvabile” rispondendo così alle richieste di sostegno delle tribù frontaliere che oltre ad essere annoverate tra i più convinti sostenitori di Haftar, hanno anche un legame molto forte con il Cairo per questioni storiche, geografiche, etniche e politiche.
Garantire l’agibilità politica a questa “quinta colonna” equivarrebbe a garantire la propria nell’ottica di al-Sisi il quale, per essere forte al tavolo negoziale, dovrà mantenere le sue Forze Armate in prontezza operativa.
A tale scopo prosegue il programma di ammodernamento dello strumento militare egiziano infatti, dopo l’acquisto di due fregate FREMM, si parla di ulteriori commesse comprendenti 24 caccia Typhoon ed elicotteri AW-149, sempre forniti dall’Italia.
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